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L’OFFENSIVA UCRAINA: OGGI NO, DOMANI CHISSA’ ?

L’offensiva d’inverno dell’esercito russo s’è arenata a Backmuth; tra via Sadova, via Oleksandra Sabientzka e la stazione. Tutto il resto, su un fronte di oltre 600 km, tace. Sembrerebbe quindi questo il tempo giusto per l’auspicata offensiva ucraina. Ammesso che ciò accada è giusto interrogarsi su dove e quando si scatenerà.

Al riguardo le ipotesi correnti si riducono a tre. La prima è proprio Backmuth, la città martire che da oltre sette mesi sta resistendo oltre ogni immaginazione. Perché allora l’esercito di Zelensky dovrebbe passare all’attacco proprio nel martoriato settore di Backmuth? Per una serie di motivi, alcuni di natura politica e d’immagine, altri ben più concreti.

Partiamo quindi dagli effetti politici e propagandistici che avrebbe un’eventuale offensiva vittoriosa contro il bastione di Backmuth. In primo luogo in Russia la perdita anche parziale di questa città avrebbe una ripercussione grave sul fronte interno dopo che proprio qui sono state macinate decine di migliaia di vite di giovani. Anche sul campo opposto, quello occidentale, la bandiera ucraina che sventola di nuovo su Backmuth servirebbe a giustificare le continue richieste di armamento e munizionamento da parte di Kiev e rappresenterebbe la prova palmare non solo della volontà politica di resistere ad ogni costo all’invasione, ma anche della sua capacità militare e del coraggio espresso sul campo dall’esercito ucraino nel perseguire questo obiettivo. Sarebbe poi interessante verificare la tenuta dei legami tra gli indipendentisti di Lugansk e Donetz, le autorità russe e l’esercito della federazione giunto in loro soccorso. Dopo tutto questa guerra era iniziata proprio per liberare le due province del Donbas dall’oppressione ucraina e l’immagine dell’esercito russo che si ritira da Backmuth senza essere riuscito a conseguire alcunché non sarebbe un bello spettacolo.

Un quartiere di Backmuth oggi

Ma non c’è solo questo. Esistono infatti elementi concreti che fanno ritenere un’offensiva ucraina su Backmuth non solo possibile, ma addirittura probabile. Il primo tra questi arriva proprio da parte russa ed è lo stesso Prigojin, il famigerato capo del Gruppo Wagner, a fornirlo. Da giorni infatti Prigojin non perde occasione nei suoi numerosi video per mettere in guardia il suo secondo antagonista – vale a dire l’esercito regolare della Federazione russa – dai concreti rischi di una limitata offensiva in questo settore. La Wagner e i paracadutisti della VDV non sarebbero in grado infatti di combattere contemporaneamente con i 7000 difensori asserragliati in città e contemporaneamente respingere un potente attacco corazzato che si sviluppasse contro di loro ada nord e da sud.

Eugenj Prigodzin ( a destra nella foto),capo del gruppo Wagner

Altri elementi a sostegno della “tesi Backmuth” provengono infine dal campo ucraino e in particolare dalle immediate retrovie di quel fronte. Da quelle parti, attorno alle cittadine di Avdiyivka, Kostiantinivka, Chasi Vjar a sud e Kramatorsk e Sloviansk a nord, numerose e verificate fonti riportano infatti di concentramenti di carri armati per circa 200 mezzi, supportati da un migliaio di veicoli da trasporto e combattimento per fanteria di varia natura, integrati infine da oltre 200 obici semoventi e campali e da una novantina di lanciarazzi multipli. Tutto questo, unito ai circa 35.000 soldati che si stimano siano stati concentrati in quest’area, configura una forza di tutto rispetto idonea per un’offensiva non certo risolutiva della guerra e neppure in grado di imporre una svolta a livello operativa ma sicuramente capace di conseguire gli obiettivi politici e d’immagine cui s’è accennato in apertura.

A corollario di questa che – è bene ricordarlo – è pur sempre un’ipotesi operativa c’è da considerare che proprio l’accanimento russo contro la città ha impedito la realizzazione di quelle opere difensive che da altre parti sono state preparate in gran numero. Si tratta di linee di trincee, campi minati, piccoli caposaldi controcarri, riserve di munizioni e quant’altro serva ad assorbire l’urto di una forza in attacco. Tutto questo a Backmuth non c’è ovvero è estremamente precario e labile.

Un’alternativa all’offensiva locale su Backmuth potrebbe essere quella da condurre investendo un tratto dei 160 km di fronte che nell’Ucraina meridionale separano Zaporizhzha da Vuledar. L’obiettivo in questo caso potrebbe essere tagliare in due il corridoio terrestre che collega il Donbas alla Crimea e con questo recidere buona parte delle linee logistiche che consentono la sopravvivenza della Penisola. L’attacco potrebbe essere condotto in direzione di Melitopol e Mariupol oppure in un qualsiasi altro tratto a cavaliere di una delle poche strade che collegano l’Ucraina centrale al mar d’Azov. L’obiettivo in questo caso sarebbe assai ambizioso: isolare la Crimea e spezzare il fronte russo. Tuttavia non si può ignorare che proprio lungo i 160 km di questo fronte le truppe russe da mesi non fanno che scavare costruendo un robusto sistema difensivo in grado – a loro dire – di frenare l’impeto di una possibile offensiva. Peraltro fino ad oggi non si registrano da parte ucraina concentramenti di truppe o l’arrivo di mezzi idonei a condurre una simile operazione. Sul versante opposto invece, sia qui, sia nel settore a nord di Backmuth, si riporta l’arrivo di numerosi convogli ferroviari che trasportano vecchi carri T55, carri armati della guerra fredda, vecchia ferraglia inutile per combattere una guerra corazzata ma ancora buona per essere interrata e divenire una sorta di fortino controcarro. Analogo ragionamento per i vecchi cannoni controcarri MT-12 ancora buoni per colpire un carro occidentale a 3000 metri. Insomma da queste parti, a differenza che a Backmuth, i russi stanno concentrando materiale difensivo proprio in previsione di una possibile sortita ucraina.

Cannone controcarri da 100 mm russo MT-12

Terza e ultima opzione è un’offensiva condotta a nord di Backmuth, lungo gli 80 km del settore compreso tra Kreminna e Svatovo. In questo caso il problema qual è? Primo si è troppo vicini alla frontiera russa il che vuol dire che Mosca può assicurare senza difficoltà l’alimentazione tattico-logistica delle truppe eventualmente coinvolte nell’attacco ucraini. Secondariamente la vicinanza delle basi aeree russe consentirebbe di battere gli attaccanti con una serie consistente di sortite aeree che la contraerea di Kiev non riuscirebbe a mitigare, almeno non come sta avvenendo nei cieli sopra Backmuth.

Dunque dovendo scommettere su quello che avverrà nei prossimi giorni, logica vuole che si guardi in primo luogo ancora a Backmuth, secondariamente al fronte di Zaporizhzha – se pur con immense difficoltà – e da ultimo al settore Svatovo-Kreminna.

Circa i tempi si possono fare solo congetture legate essenzialmente alla velocità con cui l’occidente farà arrivare non tanto gli armamenti ma le munizioni necessarie a combattere questa che sarà la carta più importante da giocarsi nel 2023. Si deve comunque considerare che la precaria situazione di Backmuth e il costante rifornimento delle forze russe lungo tutto il fronte rendono l’attacco ucraino sempre più impegnativo e difficile man mano che trascorrono i giorni e ci si avvicina all’estate.

Per ora su tutto il fronte nevica come non si vedeva da oltre dieci anni e questo concede a entrambi del tempo per pensare, ma prima o poi tornerà il sole.

ALEPH E IL DITO DI DIO

Fu Dio a disegnare nel cielo le lettere. Le disegnò una per una.

La prima fu “Aleph”, il segno che apre e chiude i mondi e annulla il tempo, e poi continuò a tracciare altre linee e altre curve nell’azzurro finché, giunto alla “Tau“, si fermò.

la lettera Aleph, la prima nell’alfabeto ebraico

Ogni gesto tracciato nel cielo portava l’eco della sua voce; il profumo del suo respiro. Gli uomini li avevano osservati come un bambino guarda alle nubi e il contadino ai cirri che annnciano la gelata. Non capirono ma quello era il respiro di Dio e tanto bastò perché da allora li avrebbero ricordati, conservati e riprodotti fino alla fine dei tempi. Ogni segno sapeva parlare agli altri uomini del profondo dell’anima e della natura che li avvogeva, faceva comprendere il mondo e sapeva far arrendere alla magia dell’incomprensibile.

Ogni segno non permetteva mai al passato di scomparire del tutto, né al futuro di chiudersi nella conchiglia di un sogno. E nel presente faceva esclamare “Guarda !” a chi non aveva ancora visto.

Sarà per questo che anche oggi le parole riportano il profumo del sacro.

Sarà per questo che vanno conosciute, ricordate e rispettate. Sarà per questo che sono loro, le PAROLE, a muovere qualsiasi fatto, a generare qualsiasi sorriso, far sgorgare qualsiasi lacrima e consolare ogni dolore.

Scrivere e leggere fa entrare in questo mondo profondo dove ognuno è viaggiatore e vagabondo. Camminiamo senza paura tra i segni che Dio ha tracciato sull’azzurro.

Diritto e rovescio: lo strano caso del signor Putin.

Vinti e vincitori sono stati sostituiti da colpevoli e innocenti. Breve viaggio sul cambiamento di un punto di vista per comprendere quello che è capitato allo “Zar”

Nel 2012, a Nataruk, una trentina di chilometri dal lago Turkana in Kenia, furono rinvenuti i poveri resti di 21 adulti e 6 bambini trucidati. Ignota la mano come ignoto il motivo della strage. Solo la data venne ricostruita con sufficiente precisione: 10.000 anni fa. Quella di Nataruk rimane dunque la prima testimonianza scientifica di un fenomeno che caratterizza tuttora l’umanità: la volontà, perdurante nel tempo, di porre a rischio la propria stessa vita e sopprimere quella di altri uomini al fine di conseguire un qualsiasi scopo, attraverso la violenza organizzata. Vale a dire la guerra.

Frank Frazzetta – dipinto

Nei lunghi secoli che seguirono la strage di Nataruk la guerra ha visto apparire e bruciare eroi e vigliacchi, capi sanguinari e truppe assetate di bottino, generali alla ricerca della gloria e soldati che cercavano solo di scamparla. E poi massacri, incendi, devastazioni, eccidi e tutto l’armamentario della crudeltà umana sempre alla ricerca di un Vincitore e del suo antagonista, il Vinto.

Per secoli la guerra ha creato queste due categorie simmetriche, mai buoni e cattivi, tantomeno colpevoli o innocenti. Bene lo sapeva il capo barbaro Brenno con il suo “Guai ai vinti pronunciato nel cuore di una Roma sconfitta. Meglio ancora Eraclito di Efeso che nel VI secolo avanti Cristo già ammoniva come «Polemos fosse padre di tutte le cose, di tutti i re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini; gli uni fa schiavi gli altri liberi».

Anche Tucidide, lo storico greco vissuto nel 460 a.C., sbatteva in faccia ai poveri abitanti dell’isola di Mélo la palese quanto crudele legge del più forte. “Questa legge non l’abbiamo istituita noi, non siamo nemmeno stati i primi ad applicarla; così, come l’abbiamo ricevuta e come la lasceremo ai tempi futuri e per sempre, ce ne serviamo, convinti che anche voi, come gli altri, se aveste la nostra potenza, fareste altrettanto. 2500 anni il povero Tucidide ignorava colpevoli e innocenti; a lui bastava poter distinguere tra vincitori e sui vinti.

Tucidide 460 – 395 a.C

Non è questa una differenza di poco conto. Al concetto di vittoria è indissolubilmente legato quello di forza prevalente, mentre l’innocenza e la colpevolezza conducono in tutt’altro ambito: quello della morale, nel regno cioè del giusto e dell’ingiusto; dell’equo e dell’iniquo.

Sant’Agostino Vescovo d’Ippona

La vittoria in guerra se ne infischia della giustezza e della moralità della causa; vuole il trionfo; piegare il nemico. Nient’altro. L’innocenza ha invece bisogno che la guerra sia “GIUSTA”, a volte addirittura “SANTA”.

Lo scriveva Sant’Agostino quando rassicurava il povero generale romano Bonifacio, perplesso del fatto che uccidere in guerra gli avrebbe negato l’accesso al paradiso cristiano: “…non credere” – diceva il Santo – che non possa piacere a Dio chi faccia il soldato tra le armi destinate alla guerra”. Da allora quando ci si batte dalla parte giusta e santa e si vince non si è semplici vincitori, ma si è anche giusti e innocenti. Allo sconfitto non basta sottostare al vincitore, ma è anche dichiarato colpevole e iniquo. Il concetto era ed è perfettamente chiaro a tutti i terroristi dell’ISIS e dovevano essere dei fan di Sant’Agostino anche i giudici della Corte Penale Internazionale  de L’Aja (CPI) che hanno spiccato un mandato di arresto per Putin Vladimir Vladimirovič, nato a Leningrado il 7 ottobre 1952 da Marija Ivanovna Šelomova e da Vladimir Spiridonovič Putin; di professione Presidente della Federazione Russa. Il capo d’accusa è grave: crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione (bambini) e di trasferimento illegale di popolazione (bambini) dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia.

Vladymir Putin – Presidente delle Federazione russa.

Questa decisione induce più di una riflessione. La prima è questa.

A qualcuno forse sta sfuggendo il fatto che da oltre un anno non Putin, ma la Federazione russa sta conducendo una sanguinosa e durissima guerra di aggressione non contro Volodymir Zelensky, ma contro la Repubblica d’Ucraina. I motivi, ammesso che ne servano, spaziano dalla temuta possibilità che l’Ucraina potrebbe in futuro rappresentare un concreto pericolo per la Russia e passano per la necessità di proteggere la minoranza russa nel Donbas dalle angherie della maggioranza ucraina che li circonda senza tralasciare ragioni di ordine culturale, religioso o valoriale e via così, di ragione in ragione, o di pretesto in pretesto.

La realtà, almeno come appare dai fatti, è che un grande stato, forte di un grande esercito e animato da una sua idea del tutto personale ne ha aggredito un altro, più piccolo e in apparenza più debole perché ha convenuto conveniente farlo. Ricordate Tucidide? “…questa legge non l’abbiamo istituita noi, non siamo nemmeno stati i primi ad applicarla questa è una legge di natura, etc…” Il governo della Federazione russa l’aveva ben chiara e prima di lui tutti coloro che hanno dichiarato o subìto una guerra; sempre così, nei secoli dei secoli, almeno fino a quando, nel 1918, di fronte alle macerie dell’Europa devastata e espulsa dalla storia, allo sconcertante numero di cadaveri insepolti che ancora giacevano sulla cicatrice del fronte, qualcuno decise che essere vincitori o vinti non bastasse più. Ci voleva un colpevole; il malvagio che con il suo scellerato comportamento era stato il responsabile di tanta rovina.

Guglielmo II Kaiser dell’Impero tedesco

Bisognava trovare un uomo o un gruppo di uomini che si prendessero cioè sulle spalle la croce della sconfitta e l’onta del peccato. Nel 1918 lo trovarono in Guglielmo II von Hohenzollern, Kaiser dell’impero prussiano. Tra gli specchi di Versailles si decise che l’unico responsabile della tragedia della prima guerra mondiale fosse stata la Germania e il suo militarismo. Il resto d’Europa – quella che aveva vinto – si auto-dichiarò del innocente. Già che c’erano i Vincitori decisero di giudicare colpevole non solo l’imperatore dall’elmo a chiodo, ma con lui anche milioni e milioni di tedeschi. Trovato il colpevole non restava dunque che stabilire la giusta punizione, come se per i tedeschi aver perso a loro volta milioni di giovani vite, aver annientato la propria economia, essere sull’orlo della rivoluzione non fosse già una punizione sufficiente abbastanza. Ci si voleva vendicare e ci si vendicò.

Qualcuno, ad esempio l’economista John Maynard Keynes, provò a sollevare una voce in dissenso, ma non fu abbastanza. Peccato che aver trattato la Germania, il suo kaiser e il suo governo non da sconfitti ma da colpevoli portò ben presto qualche decina di migliaia di uomini a non sentirsi sconfitti, cosa che nei secoli passati sarebbe stata perfettamente compresa, ma innocenti e vittime a loro volta di un’ingiustizia. Tra questi uno in particolare, di nome Adolf, in quel clima avrebbe trovato la sua fortuna. “Se anche voi, come noi, vi foste trovati in possesso della nostra stessa potenza”.

Ed è questo il punto. Decidere di processare venti, trenta, ma anche fossero stati diecimila, individui separava il loro agire da quello dell’intero popolo che li aveva espressi. Era questa una decisione presa in base al principio di giustizia o alla convenienza politica del momento? Era cioè un’applicazione comunque della legge del più forte? Senza il consenso della Germania tutta sarebbe stato possibile avere un Adolf Hitler? Io credo di no.

Alcuni degli imputati del processo di normberga 1945-46.

Nel 1945 a Norimberga si replicò. Si processarono una ventina di gerarchi nazisti; gente ripugnante, responsabile di azioni atroci, ma pur sempre funzionari o ministri di uno stato. Il loro capo, Adolf che nel frattempo era divenuto più o meno legittimamente Cancelliere si era suicidato assieme ad altri membri del suo governo. Ecco di nuovo Tucidide e il suo:”… ce ne serviamo (della legge del più forte n.d.r), convinti che anche voi, come gli altri, se aveste la nostra potenza, fareste altrettanto”.

Se invece di uno sconfitto si cerca un colpevole allora la prospettiva cambia. Basta dire che non c’è mai stata la guerra della Repubblica tedesca contro il resto del mondo, ma quella personale di Adolf Hitler e del suo gruppo di razzisti squinternati. Vale lo stesso per l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche innocente di essersi mangiata mezza Polonia, sterminato 15 milioni di propri cittadini colpevoli d’essere così ricchi da possedere addirittura una mucca. L’URSS era innocente di tutto. Quella era la guerra di Stalin, il Tiranno. E via così con i vari Ayatollah che bastonano le ragazze in piazza senza che il popolo iraniano ne sappia nulla; i principi sauditi che bombardano lo Yemen; Saddam Hussein che uccide i curdi di nascosto al proprio popolo fino ad arrivare oggi a Putin che invade l’Ucraina perché è cattivo, anzi colpevole.

E’ bizzarro come un popolo come quello russo che ha inventato la rivoluzione patendone per decenni gli effetti si tenga ancora stretto questo capo e la sua cricca di oligarchi psicopatici. Non solo, è ancor più strano che risponda ai suoi appelli, non diserti la sua mobilitazione e difenda in gran numero le ragioni della guerra.

L’AIA – I giudici della corte penale internazionale.

Ai giudici de L’Aja questo poco interessa, perché? Perché il concetto di colpevolezza e di innocenza, attribuibile a un individuo o ad un gruppo di individui, funziona solo se si prescinde dalle enormi masse di altri individui che li mantengono al potere, che ne eseguono gli ordini e che, spesso, ne condividono obiettivi e visioni. In altri termini funziona solo se non si pensa che la guerra sia un’attività politica con innegabili risvolti criminali. La Corte Penale Internazionale funziona dunque proprio sul binomio “colpa-individuo”, ignorando del tutto il contesto socio-politco che ne giustifica e sostiene il potere.

Istituita a Roma il 17 luglio 1998 la Corte è un tribunale per crimini internazionali con sede a L’Aia, La sua competenza è limitata ai crimini che riguardano la comunità internazionale nel suo insieme, quali il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra (cosiddetti crimina iuris gentium), e di recente anche il crimine di aggressione. La Corte ha una competenza complementare a quella dei singoli Stati, dunque può intervenire solo e se gli Stati non possono o non vogliono agire per punire crimini internazionali.

La Corte Penale Internazionale non è un organo dell’ONU anche se spesso la si confonde con la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite, anch’essa con sede all’Aia. Ha però alcuni legami con le Nazioni Unite. Oggi la Corte è riconosciuta da 123 paesi. Molti altri, tra cui Cina, Stati Uniti, Russia e India non ci pensano proprio che ad indagare, investigare, giudicare e condannare un loro cittadino sia una corte internazionale e non un loro legittimo tribunale.

Karim Khan, capo della procura penale internazionale 

Ecco rispuntare la differenza tra il binomio vincitore/vinto e quello di colpevole/innocente. Un vinto in balia del vincitore potrà essere incarcerato, trascinato in catene dietro il carro del trionfo, appeso dentro una gabbia fuori dalle mura del castello, oppure graziato. Il suo destino è in definitiva l’ultimo atto della guerra. Un colpevole no. Per un colpevole ci vuole un codice di leggi , una giurisdizione, un giudice naturale e, soprattutto un’Autorità. Il destino del colpevole è il primo atto della pace.

Putin si può dunque processare? Certo, ma dovrebbe essere una decisione della Russia, anzi potrebbe essere il primo atto della nuova Russia post-oligarchica. Se invece ci si ostina a esportare una giustizia a passo variabile, si sottrae il dittatore di turno al giudizio dell’unico giudice naturale: il suo popolo. Per questo la decisione di spiccare un mandato di arresto contro Putin in qualità di presidente della Federazione russa è un atto di grave arroganza politica che poco ha a che fare con la giustizia.

Ci aveva già pensato nel 1815 il congresso di Vienna quando all’indomani della fuga di Napoleone dall’Elba aveva posto l’ex imperatore dei francesi:” ... al di fuori delle relazioni civili e sociali e come nemico e perturbatore del mondo. Egli è additato alla pubblica vendetta”. Ora come allora con questo mandato di arresto internazionale, si chiede agli stati aderenti all’istituto della Corte Penale Internazionale di arrestare Putin e tradurlo in manette davanti al tribunale de L’Aja.

Anche questa è una scena già vista. Radovan Karadzic, ex presidente della repubblica serba di Bosnia fu arrestato il 21 luglio 2008 dopo 13 anni di latitanza ma allora la guerra nella ex-Jugoslavia era finita da un pezzo e Karadzic era solo un ex-presidente. Oggi in Ucraina si combatte ancora e la via di una pace possibile neppure si intravede. In questa condizione viene chiesto che si arresti il presidente di una delle due parti.

E non basta.

Viene infatti anche da chiedersi quale valore avrebbe mai un’eventuale pace sottoscritta da un criminale di guerra, o quale leader occidentale gradirebbe condurre colloqui con un simile delinquente e poi dove? In che località? Magari in un paese del sudamerica che non prevede l’estradizione.

A ben guardare il provvedimento della Corte Penale Internazionale assume dunque sempre meno una connotazione giuridica e sempre più una politica, per giunta intempestiva. Con un gesto del genere si avvicina la pace? Io non credo. Quello che so per certo è che, come ricordava Bertolt Brecht:Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente