Combattere sotto la soglia – Uno sguardo sulla guerra ibrida.

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Passato il tempo in cui di ibrido c’erano solo muli e mandaranci. Poi sono venuti motori e auto; adesso è il momento della guerra. Una guerra che sempre più spesso viene definita ibrida ma che, come al solito, non rinuncia ad alcun mezzo lecito e soprattutto illecito per raggiungere lo scopo: prevalere.

Trucchi di guerra, inganno, corruzione, terrore, manipolazione fanno parte della natura della guerra e vi si ricorre da tempi immemorabili. E’ allora qual è la novità? Cosa c’è in questo nuovo modo di guerreggiare di realmente nuovo? Iniziamo per il momento con definire che cosa è una guerra ibrida.

Secondo una definizione diffusa una guerra è ibrida quando si impiegano contemporaneamente combinazioni di mezzi politici, militari, economici, sociali e informativi uniti a metodi di guerra convenzionali o irregolari, al terrorismo, ad azioni criminali alla disinformazione e alla propaganda. Tutte queste attività possono essere condotte da una combinazione di attori statali e non-statali”.

Più semplicemente possiamo accettare come definizione di guerra ibrida quella che viene condotta sotto la soglia del combattimento aperto. Rientrano in questo dominio la sovversione, la disinformazione, la corruzione, l’attacco politico, il sabotaggio, la manipolazione, le azioni aggressive in campo finanziario, l’ingerenza elettorale, la creazione di movimenti di opinione e così via.

Come caso di scuola si cita spesso la catena di eventi che nel 2014 portò all’occupazione militare e quindi all’annessione della Crimea da parte della Federazione russa; caso conosciuto come l’operazione degli omini verdi. Se invece ci si rivolge alla controparte russa per Mosca sono esempi di guerra ibrida le operazioni che portarono alle primavere arabe e ancor prima la campagna destabilizzatrice che condusse alla seconda guerra del golfo.

manifestazione in tunisia durante la primavera araba – foto WEB

Per tornare comunque al caso Crimea che in questi giorni ha almeno la freschezza della cronaca, esso rappresenta il paradigma del modo in cui si possano conseguire obiettivi politico-militari di assoluta rilevanza senza che ricorrere all’uso della forza e, soprattutto senza che nessuno si fosse reso renda conto di cosa stava succedendo se non a cose fatte. Altri esempi sono le operazioni montate dalla Federazione russa per le elezioni americane del 2016 o per il referendum popolare che ha portato alla BREXIT. In questi ultimi due casi allo scopo di radicalizzare o polarizzare le diverse posizioni politiche, sono state manipolate piattaforme informatiche e social media come Twitter e Facebook, per approfondire le faglie già esistenti nelle società americane e britannica, senza escludere strumenti per così dire più ”classici” come la corruzione o l’illecito finanziamento di gruppi, associazioni o leader. Ma non sono questi i soli mezzi cui si ricorre. Ad esempio si è anche pensato ai rifugiati o meglio a gestire flusso e intensità della massa dei profughi come strumento di destabilizzazione politica. Un esempio? Quello della Bielorussia e della Polonia nel 2021 quando migliaia di profughi afghani e siriani sono stati trasportati nelle foreste del confine e là abbandonati a loro stessi per creare una pesante situazione di imbarazzo al governo polacco apertamente anti-russo.

profughi al confine tra Bielorussia e Polonia – foto WEB

Trascurando questi come i molti altri esempi, il concetto di guerra ibrida è oggi sempre più spesso associato all’agire della Federazione russa. In primo luogo per i buoni risultati che ha ottenuto sia in Crimea, sia in Ucraina, secondariamente perché proprio a un russo, il generale Gerasimov, si deve l’avvio del dibattito su questo nuovo metodo di combattimento. Mi riferisco a quella che impropriamente è appunto definita “dottrina Gerasimov”, felice definizione per una dottrina mai espressa. Sebbene non è corretto attribuire alla Russia il monopolio su questo tipo di guerra, tuttavia è stato proprio osservando l’agire della Federazione negli ultimi dieci o quindici anni che si è iniziato a notare come si possano ottenere grandi risultati militari pur rimanendo sotto la soglia del combattimento.

Con gli strumenti offerti dall’attuale tecnologia tutte la azioni che storicamente hanno sempre fatto parte del bagaglio della guerra possono infatti essere coordinate e distribuite nel tempo o nello spazio con un’efficacia e un tempismo impossibili in passato. E’ questo, in fondo, ciò che definisce questa visione della guerra conferendone una certa novità: essere in grado di coordinare nel tempo, nello spazio e nell’intensità i diversi strumenti del potere nazionale, per la maggior parte non militari, al fine di conseguire un obiettivo politico-militare.

Tra le varie teorie che sottendono questo nuovo modo di confrontarsi e che tentano di spiegarlo una delle più interessanti è quella formulata dal prof. David Kilkullen riguardo la cosiddetta “guerra liminale” (liminal warfare).

il professor David Kulkillen – autore della teoria sulla “liminal warfare” -foto WEB

Il punto di osservazione scelto da Kilkullen non si sofferma sugli strumenti che concorrono a formare l’arsenale di un confronto ibrido, ma su come questi vengono calibrati in funzione delle soglie di percezione manifestate dall’avversario. In altri termini di come gli strumenti possano o meno operare efficacemente tra le differenti soglie percettive del sistema difensivo avversario. Sono quindi le soglie di percezione gli elementi centrali della teoria di Kilkullen.

La prima è la cosiddetta soglia di rilevamento o di scoperta. Essa individua il punto in cui i sistemi di rilevamento iniziano a percepire che nella loro realtà si sta verificando qualcosa di anomalo, inatteso e potenzialmente dannoso. Può essere la rapida comparsa di un nuovo movimento politico o il potenziale risveglio del terrorismo, un atteggiamento economicamente ostile da parte di un paese o di una coalizione e molto altro. La soglia di scoperta è il momento in cui l’apparato aggredito prende consapevolezza che qualcosa sta accadendo al proprio interno.

E’ evidente che l’assenza della percezione non significa che in quel momento non siano in atto azioni ostili, ma solo che l’apparato difensivo/informativo non ne è cosciente. E’ questa l’area in cui si sviluppano le operazioni invisibili, le attività clandestine.

Superata la soglia di rilevamento gli apparati dello stato iniziano a investigare per comprendere cosa stia realmente accadendo. Qui si innesca un discorso laterale circa la capacità tecnica e tattica dei servizi di sicurezza di percepire la minaccia. Migliori saranno gli apparati di intelligence, più bassa sarà la soglia di percezione e più difficoltoso sarà per l’avversario condurre le proprie operazioni. Percepire il pericolo non vuol dire però individuarne la provenienza, il che da all’aggressore ancora un margine di tempo per proseguire le proprie attività di destabilizzazione. Da parte dell’aggredito si assisterà all’innalzamento del livello di attenzione, all’incremento dell’attività investigativa e con ogni probabilità il mutamento di atteggiamento sarà percepito anche dall’opinione pubblica che se da un lato può sentirsi protetta dall’altro potrebbe percepire tali attività come un attentato alla propria libertà o una delle forme oppressive del potere. E’ questa l’area delle operazioni segrete o coperte che possono continuare finché non si raggiunge la seconda soglia, quella cosiddetta di “attribuzione” in cui finalmente gli apparati dello stato sono in grado di attribuire una paternità e una responsabilità ai mandanti delle operazioni coperte come pure di quelle clandestine.

sabotaggio al gasdotto north-stream 2 nel mar Baltico (foto WEB)

A questo punto si potrebbe pensare che una volta individuato l’autore dell’aggressione si possa pensare facilmente a una risposta adeguata. In linea teorica è facile dire di si, tuttavia nel campo del reale avere prove certe ed evidenze incontrovertibili che rimandino a questo o a quello stato è estremamente difficile e quindi pericoloso. Esiste sempre un margine di indeterminatezza, ambiguità o insicurezza che non permette di puntare il dito con sicurezza. E’ proprio sfruttando questo ristretto ambito che l’aggressore continua la sua opera. Come? Incrementando la confusione in ogni modo possibile. Ad esempio attraverso dichiarazioni ai massimi livelli volte a negare ogni coinvolgimento, le offerta di aperta collaborazione con organismi sovrannazionali o stati neutrali per l’individuazione dei responsabili come pure indicando un nemico diverso e fomentando l’incredulità e la sfiducia di una parte della popolazione circa l’onestà e la buona fede del proprio governo. E’ questo il campo aperto alle teorie cospirazioniste, dei circoli segreti che governano il mondo e via di questo passo. Insomma lo strumento utilizzato in questo ristretto ambito è la menzogna come generatrice di confusione. Perché? Per il semplice motivo che l’incertezza rallenta e condiziona i decisori sia nei modi come nei tempi e nella forza della risposta.

Ci si avvicina comunque, se pur con alimentata lentezza, alla terza delle soglie individuate da Kilkullen, quella della risposta. E’ questo il momento in cui l’aggredito decide infine di rispondere all’aggressione e l’operazione ibrida può dirsi conclusa e si entra nel confronto se non nell’aperto conflitto.

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Mentre il posizionamento delle prime due soglie dipende in gran parte da fattori tecnici e dalla capacità e dalle potenzialità dell’apparato di sicurezza dello stato, quello della soglia di risposta dipende in larga misura dalla politica. Le società democratiche tendono ad avere una soglia di risposta molto più alta delle autocrazie o delle dittature, questo perché molto più numerosi sono i centri di potere, di mediazione degli interessi dei gruppi, più sviluppata è l’architettura di controllo e di compensazione tra poteri. Peraltro non certo ultima è la necessità per ogni politico di creare consenso attorno a sé. Tutto ciò rappresenta una vulnerabilità delle democrazie perché un eventuale aggressore può largamente sfruttare a proprio favore il tempo impiegato a definire e quindi attuare una risposta adeguata alla minaccia. Per mitigarne gli effetti negativi è palese come i paesi democratici debbano dotarsi di apparati di sicurezza leali, altamente tecnologici e reattivi in grado di individuare le minacce fin dal loro palesarsi. Anche lo strumento militare, la sua forza, la capacità di reazione e il livello di prontezza concorrono a dissuadere l’avversario dal tentare azioni particolarmente aggressive. Da ultimo anche la politica deve essere comunque animata da un forte senso dell’interesse nazionale che deve comunque prevalere su quello, legittimo, di parte.

L’obiettivo di una guerra ibrida è quindi di passare più tempo possibile al di sotto della soglia di risposta anche se non necessariamente al di sotto di tutte le altre soglie. Alcune operazioni possono non essere segrete, altre coperte, ma l’obiettivo di chi le conduce è di non far alzare la temperatura fino alla soglia di risposta in modo che esse non vengano interrotte fino al conseguimento dell’obiettivo prefissato.  E’ questo ad esempio il caso delle operazioni messe in atto dalla Federazione russa per favorire in Gran Bretagna un voto favorevole all’uscita del paese dalla Unione Europea. In quello specifico caso quando gli apparati di sicurezza britannici si sono avvicinati alla soglia di risposta ormai il referendum si era tenuto e i risultati erano stati dichiarati.

Questo aspetto introduce alla dimensione temporale di ogni operazione liminale. Chi le pianifica, organizza e conduce sa bene che prima o poi tutto verrà a galla. Non è quindi necessario mantenere il segreto per sempre. L’importante è che l’azione rimanga sufficientemente ambigua fino a quando rispondere sarà inutile o intempestivo. Può anche verificarsi che l’aggressore abbia preventivato come inevitabile il superamento prima o poi della soglia di risposta, ma anche in questo caso è comunque determinato ad arrivare a quel punto da una posizione di forza.

Un elemento significativo in questa che si potrebbe definire architettura delle cattive azioni è che è possibile, almeno in teoria, tornare indietro lungo la scala tentando di riposizionarsi sotto una delle soglie descritte. Ad esempio avviando negoziati di pace, dimostrando buona fede, proponendosi come mediatori o sostenitori di una minoranza oppressa, riuscendo ad ottenere un’investitura ufficiale dall’ONU o da un’altra istituzione internazionale. Insomma i mezzi sono molti, ciò che però rimane e dovrebbe restare in mente è che ci si muove sempre e comunque nel campo della malafede, senza essere davvero mossi da un genuino interesse a risolvere la crisi e a limitare i danni.

Sembra essere questo il caso dell’Ucraina in cui le operazioni coperte e segrete sono iniziate ben prima del 2022, forse anche prima del 2014 quando la crisi si è palesata nei sui primi contorni militari e sono proseguite fino ad oggi quando a fronte della possibilità di un cessate il fuoco unilaterale da parte russa e alla proposta di avviare negoziati di pace, la volontà di Kiev di recuperare i territori invasi e annessi potrebbe essere interpretata non come una legittima aspirazione, ma come desiderio di una parte di proseguire comunque una guerra costosa e sanguinosa che altrimenti sarebbe già conclusa. Gli effetti sulla rete di alleanze che tutt’oggi sostengono il governo Zelensky sono facilmente intuibili.

guerra in Donbas (foto WEB)

Fin qui si è parlato di cosa significhi subire una guerra ibrida. A questo punto viene spontaneo chiedersi si esista un modo per reagire. Secondo Kilkullen si. A livello teorico si tratta di procedere con azioni che possono essere raggruppate in cinque fasi. Le prime tre coprono le misure da adottare in seguito alla scoperta della minaccia, alla sua attribuzione e alla decisione di reagire. Le altre due prevedono invece la pianificazione e l’organizzazione di una contro-risposta – non necessariamente militare – e successivamente la condotta sul campo della risposta individuata come più appropriata o semplicemente sostenibile. E’ il caso io delle sanzioni – risposta senza dubbio non militare – decise per reagire alla parte di aperto conflitto con cui la Federazione russa intende regolare la questione ucraina.

In conclusione ciò che rimane al di là delle teorizzazioni è che il fenomeno della guerra è profondamente cambiato negli ultimi decenni passando sempre più dal campo della forza e della sua applicazione ad obiettivi ristretti e definiti al costante confronto e scontro di volontà opposte giocato in gran parte sulle capacità di inganno, dissimulazione, manipolazione e modificazione della realtà. Ciò che invece non sembra essere mutato è la percezione che del fenomeno guerra si ha da parte dell’opinione pubblica, ancora legata mani e piedi allo scontro armato tra carri e artiglierie in qualche landa sperduta. Non è così e non lo è più da tempo e prima ce ne renderemo conto, meglio sarà.

UCRAINA – un seme sotto la neve?

Ci incontreremo ancora, non so dove, non so quando, ma c’incontreremo in un giorno di sole” così cantava Vera Lynn nel 1939. La svastica era stata imposta a Cecoslovacchia e Austria, agli ebrei la Stella di Davide e il Reich del millennio stava invadendo la Polonia, ma Vera Lynn, e milioni di europei con lei, cantavano “We will meet again…”. In questi giorni di inizio autunno, dopo oltre sette mesi di una guerra che sarebbe dovuta durare una settimana, nessuno vuole cantare.

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Gli attentati ai gasdotti del Baltico, l’offensiva dell’esercito ucraino ad est, il bombardamento del ponte di Kerch hanno gettato nella confusione tanto i vertici del Cremlino quanto i giovani gopnick chiusi nei blindati in Donbas e mentre si minaccia l’impiego dell’arma atomica noi europei attendiamo l’inverno stretti tra la minaccia di una guerra possibile e una crisi economica già in atto.

Il gasdotto North Stream 2 nel tratto colpito dall’attentato (foto WEB)

Ormai è chiaro a tutti che questa guerra è iniziata con un gigantesco errore di valutazione. Eppure un’occhiata al passato di queste terre poteve bastare per capire che non sarebbe stata una passeggiata.

LAmberti Sorrentino, nel ’43 inviato del Corriere della Sera sul fronte ucraino, così scriveva dello spirito di quella gente: “ spesso ho pensato che costoro sparino soltanto perché un istinto più forte di qualunque paura ve li obbliga. Sbrindellati è convulsi, uccidono perché nel raggio delle loro armi non è giusto che viva nessun estraneo… “Esistiamo! Vogliamo esistere! Esisteremo sempre! Andatevene”. A Mosca nessuno aveva letto Sorrentino e così per tutta la primavera l’armata russa, villaggio dopo villaggio aveva continuato ad avanzare, ma ad un passo dall’ultima offensiva, quella che l’avrebbe portata alla conquista dell’intero Donbas e, forse di Odessa l’avanzata si era esaurita perché esaurito era l’esercito di Putin. Troppo piccolo per il compito assegnato, mal sostenuto da una logistica precaria, privo di una guida decisa e univoca si era fermato a un passo dalla meta, pensando di riprendere a combattere magari verso sud, tra Kherson e Zaporizhzhya. Da quelle parti l’esercito di Zelensky aveva ammassato la maggior parte delle unità, pronto a scatenare una controffensiva.

carri armati russi nei primi giorni dell’invasione (foto WEB)

Per parare l’eventuale colpo anche Mosca aveva quindi fatto lo stesso, accettando l’allungamento di una già precaria catena logistica e di essere sotto il pieno controllo dei satelliti NATO. Attorno a Kherson e Zaporizhzhya la costante pressione ucraina aveva indotto il comando russo a utilizzare le proprie riserve nel peggior modo possibile, vale a dire per alimentare costantemente le unità a contatto. A metà dell’estate in Ucraina meridionale erano stati concentrati quasi settanta gruppi tattici a fronte della ventina a presidio del Donbas e della quindicina lasciati a guardia di Kharkiv e del settore nord.

Nel VI secolo a.C. in uno dei tanti principi elencati nel suo “L’arte della guerra”, Sun Tzu raccomandava “combatti il tuo nemico dove non è”. E proprio al nord, là dove i russi non c’erano più e di riserve neppure a parlarne, gli ucraini hanno iniziato una ricognizione in forze condotta da sole tre brigate ben presto trasformata nella fortunata offensiva che sta portando l’armata russa al limite del collasso. Lyman è caduta, Kharkiv liberata, Izium e Kupiansk in pieno controllo e l’esercito di Kiev ora preme su Lysychansk e domani, forse, su Severodonetsk . Non va meglio a sud dove nel settore di Kherson la testa di ponte russa è ormai divisa in due mentre circolano voci sempre più insistenti di trattative locali per l’abbandono della città a patto che venga garantita la funzionalità della diga di Nova Kakhovka da dove parte il grande canale Nord Crimea, l’arteria che assicura il rifornimento di acqua dolce alla Crimea.

Più a nord la centrale atomica di Enerhodar è ancora occupata dai russi e bombardata dagli ucraini e Zaporizhzhya sembra poter fungere da base di partenza per un’ultima offensiva ucraina che punti a Melitopol e poi al mar d’Azov. A questo quadro già di per se abbastanza fosco negli ultimi giorni si è aggiunto l’attacco o l’attentato al ponte di Kersh, infrastruttura vitale non solo per la Crimea, ma anche per il sostegno logistico.

Ponte di Kerch. Il momento dell’esplosione. (Foto WEB).

A questo punto si è pensato o forse sperato che l’esercito russo fosse al limite del collasso, ma l’inverno è alle porte, i soldati ucraini sono ormai esausti e anche i russi hanno trovato una residua volontà di resistenza e quel limite non è stato superato. Chi oggi parla di disfatta non ha dunque notato che l’esercito russo occupa ancora buona parte del Donbas e del corridoio che da questo conduce a Kherson, per non parlare della Crimea.

Che tuttavia la situazione non sia delle migliori se ne è accorta anche la TV di stato russa che ormai non ha più remore a parlare di gravi difficoltà e della necessità di indire la mobilitazione generale oppure di colpire senza risparmio tutti gli obiettivi che permettono agli ucraini di sopravvivere; vale a dire centrali elettriche, stazioni ferroviarie, ponti stradali, dighe e altre infrastrutture. Di lasciar perdere non ne parla nessuno.

Come sempre accade quando le cose vanno male, a Mosca i falchi oggi prevalgono sulle colombe, ma anche a Kiev, ora che si intravede una concreta possibilità di vittoria, parlare di pace è tradimento. I due leader sembrano dunque imprigionati l’uno dal non poter perdere e l’altro dal non poter rinunciare a vincere.

Manifesto per l’arruolamento volontario nell’esercito russo (foto WEB)

Per il momento Putin ha cercato di governare la fronda ordinando la mobilitazione parziale dei riservisti. I numeri annunciati sono di 300.000 uomini, ma nella realtà le cartoline recapitate sono più di un milione. Quasi tutti i richiamati alle armi arriveranno dalle province della Russia profonda: dal Dhaghestan, dalla Buriazia, dalla Cecenia o dalla Jacuzia, immense regioni che faremo una gran fatica a individuare su una carta geografica. San Pietroburgo e Mosca, come al solito, saranno trattate con un occhio di riguardo perché è qui che più forte si fa sentire la protesta. Tuttavia Putin sa bene che mentre Mosca strepita e a San Pietroburgo ci si mette in coda alla frontiera finlandese per espatriare, nei villaggi del Caucaso, oltre gli Urali o nella immensa Siberia il richiamo della Madre Russia è ancora forte, come forte è la povertà e la lusinga di una buona paga da volontario nell’esercito.

Villaggio nella regione della Siberia (foto WEB)

Alla fine Putin avrà dunque il suo milione di soldati, addestrati ed equipaggiati ad un livello più che accettabile, pronti per essere eventualmente spediti in Ucraina. Quando? Non prima di quattro o sei mesi, cioè per la primavera 2023. Nel frattempo ci si domanda se l’esausto esercito russo, in difensiva su tutti gli oltre 800 chilometri di fronte, reggerà almeno fino all’inizio dell’inverno quando la pioggia e poi la neve imporranno una sosta.

Non che questo dispiaccia agli ucraini alle quali l’offensiva è fin qui costata migliaia di morti. Anche Kiev è infatti conscia che il momento di massimo sforzo offensivo è ormai alle spalle e che conviene trovarsi delle posizioni forti dove passare l’inverno. Come due pugili esausti entrambi attendono il suono della campana e il prossimo round. Ma la partita nel frattempo si è già spostata dal campo alle cancellerie del blocco occidentale che finora, se pur con qualche incertezza, hanno sostenuto Kiev.

Il presidente ucraino Zelensky in visita al fronte nei primi giorni dell’invasione (foto ADNKRONOS)

In piena crisi energetica e con una difficile gestione del rientro dalla pandemia nessuno nell’Unione Europea ha oggi voglia di affrontare l’ulteriore problema di come fronteggiare un milione e mezzo di soldati russi in partenza per l’Ucraina. Putin li manderà tutti a combattere tra Kharkiv e Kherson? Certamente no, ma basta il numero a spaventare e a costringere Kiev ad aumentare i livelli dei propri effettivi. La domanda rivolta agli Stati Uniti e soprattutto all’Europa è quindi: “Siete disposti a pagare, armare e sostenere un milione di soldati?

Truppe aviotrasortate durante una parata sulla Piazza Rossa a Mosca (foto WEB)

Anche se non impiegato un simile esercito è dunque già di per sé un’arma strategica, forse più delle paventate armi nucleari tattiche. Peraltro, ora che il fronte si è quasi stabilizzato e l’inverno è alle porte nulla vieterebbe al Cremlino di riprendere l’offensiva già nel prossimo febbraio ma questa volta non più con 150.000 uomini, ma con mezzo milione.

A volerli interpretare i segnali ci sono già. Ad esempio la decisione di inviare al fronte per tappare i buchi solo i richiamati delle classi più anziane, quelli che si erano congedati sette o otto anni fa, tenendo i più giovani e freschi in patria in addestramento intensivo per costituire, con ogni probabilità, il nerbo delle nuove unità da inviare in Ucraina prima del disgelo di primavera.

Vladymir Putin e Ėl’vira Nabiullina (foto WEB)

Quali dunque le prospettive nel medio periodo?

A Mosca si è convinti che questa è una guerra che la Russia non perderà, dovesse impiegarci dieci anni, ma si prospettano comunque tempi duri per tutti. La situazione interna è grave, inutile negarlo. Già un centinaio di deputati da diciotto regioni della Federazione hanno firmato una petizione per chiedere le dimissioni di Putin, ma anche Ėl’vira Nabiullina, direttrice della banca centrale russa e autrice del miracoloso salvataggio del rublo, si è sfilata, per non dire della posizione sempre più traballante del ministro della difesa, Sergej Šojgu, indicato come responsabile del fallimento di questa prima parte della guerra. Come c’era da attendersi, gli insuccessi dell’estate hanno causato grandi cambiamenti anche nei vertici militari. Dmitri Bulgakov, generale e vice ministro della difesa, è stato rimosso e sostituito dal generale Mikhail Mizintsev, il “macellaio di Mariupol” un nome che la dice lunga.

generale Mikhail Mizintsev (foto WEB)

Ma non basta. Per rimanere in tema di nomignoli truci, anche l’aeronautica militare in Ucraina ha un nuovo comandante. E’ il generale Sergej Surovikin, già comandante delle forze aerospazioli e soprannominato “Armageddon“. Alexandr Lapin, comandante del Distretto militare centrale e responsabile del settore di Izium e Lyman, cadute all’inizio dell’offensiva ucraina, è stato sostituito da tempo e via di questo passo. Nel frattempo, anche per prendere fiato, il Cremlino agita lo spettro nucleare non si sa con quale convinzione, se non di spaventare un’opinione pubblica occidentale già pronta a gridare all’escalation e alla terza guerra mondiale.

ma a tal proposito è bene ricordare che qui non si sta applicando una logica lineare, quella per intenderci secondo la quale per fronteggiare una grave crisi in campo tattico-operativo si aumentano gli sforzi in quella direzione.

Veicolo Trasporto e Combattimento BMP-2 (foto WEB).

Piuttosto siamo di fronte a un approccio che potremo definire “circolare” in cui gli avvenimenti accadono contemporaneamente ma su fronti diversi; dove se da una parte si è in difensiva da un’altra si conduce una forte offensiva e su un terzo fronte si guadagna tempo, ma tutto nel quadro di un disegno strategico preciso e tutt’altro che improvvisato.

D’altra parte è proprio questa la caratteristica principale della guerra ibrida di cui la Russia è una dei maggiori sostenitori: combattere su fronti diversi, da quello militare a quello economico, dall’informazione all’energia, dalla persuasione al terrorismo, ma riconducendo tutto a un unico disegno coordinato nel tempo e nell’intensità.

Le esplosioni multiple ai gasdotti north-stream 1 e 2, la paventata minaccia dell’uso di ordigni nucleari, i sottomarini con mostruosi siluri termonucleari che navigano nel mar di Barents, la mobilitazione parziale, la stretta energetica così come i referendum indetti in territori che neppure si controllano, possono essere tutte interpretate come azioni volte ad aumentare la confusione e l’indecisione nel campo avverso, vale a dire da noi, proprio nel momento in cui Mosca non riesce ad affermarsi con la sola forza della armi. Parafrasando von Clausewitz oggi la guerra non è più solo la prosecuzione della politica con altri mezzi, ma lo è con ogni mezzo.

Joe Biden, presidente degli Stati Uniti d’America (foto WEB).

In questa logica si inserisce la gestione russa dell’attacco al ponte di Kersh e la conseguente campagna di bombardamenti degli ultimi giorni. Il colpo inferto alla creatura di Putin, quel ponte che significava il rientro in patria della Crimea, non poteva non avere conseguenze gravi. Tuttavia, al di là dei toni largamente usati in Occidente per condannare la reazione russa, proprio da questa si riescono ad intravedere alcuni barlumi che fanno sperare per il futuro.

Innanzi tutto il non aver direttamente attribuito l’attacco al ponte all’esercito o ai missili di Kiev – fatto che di per sé avrebbe costituito una delle condizioni per il rilascio di munizionamento nucleare tattico – è già un segnale che per ora Mosca non intende superare nessuna “linea rossa”. Si è preferito parlare di terrorismo, di azione sconsiderata, di camion suicidi e di settori del servizi segreti ucraini piuttosto che di missili e neppure Zelensky si è certo affrettato a rivendicare l’azione. E questo è un primo punto positivo. Il secondo lo si può intravedere nella dolorosa campagna di bombardamento missilistico dove insieme all’esplosivo viaggiano anche messaggi. Il più importante è che Mosca non vuole colpire i simboli del potere della repubblica ucraina, né quelli dei suoi sostenitori. Niente piazza Maidan dunque, né palazzo del Governo, ambasciate o ministeri. Meglio neutralizzare infrastrutture energetiche e linee di comunicazione che almeno hanno una qualche valenza ai fini militari.

soldati ucraini (fonte WEB)

I russi sono infatti a corto di missili e doverne lanciare più di un centinaio in due giorni deve essere costato parecchio. Questo è quindi un secondo segnale che fa capire come in qualche modo Mosca sappia che prima o poi dovrà parlare proprio con Zelensky. Un terzo positivo elemento viene da oltreoceano. Biden si infatti finalmente accorto che è tempo di esercitare un controllo più stringente sull’uso che Kiev fa degli armamenti da lui copiosamente forniti. Non solo. A Washington si è sempre più riluttanti a far partire per l’Ucraina armi e munizioni che possano davvero colpire in profondità il territorio russo, mettendo così de-facto gli USA in stato di belligeranza. D’altra parte tra poco si terranno le elezioni di medio termine e per Biden evitare un conflitto mondiale o addirittura a favorire la pace sarebbe un gran bel regalo. Infine e per la prima volta, se pur con la ruvidezza imposta dalla situazione, sia Mosca per bocca del ministro degli esteri Lavrov, sia Biden hanno accennato alla possibilità di incontrarsi faccia a faccia per discutere di come far finire questa faccenda prima che davvero sfugga di mano. E’ questo un fatto che suggella i colloqui segreti che le due parti mantengono da tempo.

semoventi di artiglieria 2S19 russi in sosta in un villaggio ucraino

L’opposizione che in patria inizia a farsi sentire dimostra che Putin si è indebolito abbastanza per essere pronto a trattare e forse a Washington ci si è resi conto che il dopo-Putin potrebbe essere addirittura peggiore di Putin stesso. Certamente non si può pensare a una pace giusta, quella in cui i russi si ritireranno oltre frontiera, magari chiedendo scusa e pagando i danni. Sarà impossibile infatti per i russi uscire da una guerra in una posizione di debolezza. Chi auspica una caduta a breve di Putin forse dovrebbe anche suggerire il nome di colui che vorrà iniziare il suo regno gestendo una sconfitta maggiore di quella patita in Afghanistan. Anche se non ci piace la soluzione va quindi cercata con Putin e avrà un prezzo salato sia per gli ucraini che al di là dei proclami è assai probabile dovranno accettare non pochi compromessi, sia per noi europei, vaso di coccio tra vasi di ferro. Se c’è uno sconfitto già in questa fase della guerra è infatti l’Unione Europea che di unione ha sempre meno. E’ ormai palese che una società economico-finanziaria con spolverate di politica sociale quale è oggi l’Unione non è stata in grado di giocare alcun ruolo in questo guaio. Si è preferito trattarlo come si trattasse di una crisi economica o energetica alla quale ciascuno degli stati membri ha comunque risposto a suo modo, adeguandosi poi alla lista delle sanzioni presentate da Washington. Peccato perché qualora fosse stata ben gestita, avrebbe potuto costituire uno dei momenti fondativi dell’Unione, ma allo stato dell’arte non resta che constatare l’inadeguatezza dell’intera architettura comunitaria.

La situazione è quindi fluida e di certo preoccupante ma, a ben guardare, qualche spiraglio, nostro malgrado, potremo anche intravederlo e finalmente cantare…”we’ll meet again”.

Ucraina. Passata è la tempesta?

L’autunno è alle porte e la polvere dei giorni ha iniziato a posarsi sulla travolgente offensiva ucraina contro Kharkiv e Kupiansk. E’ tempo di approfondire lo stato dell’arte su ciò che sembrava o si auspicava essere l’offensiva che avrebbe rapidamente portato al collasso dell’esercito russo e, perché no, alla caduta di Putin.

Quella che inizia a intravedersi è invece una situazione in cui l’esercito ucraino continua a spingere in vari settori del lunghissimo fronte, ma senza per ora conseguire risultati decisivi. Dall’altra parte i russi resistono e si riorganizzano se pur con grandi difficoltà. Entrambi i contendenti sanno che la finestra temporale utile a raggiungere qualche obiettivo significativo si chiuderà a partire dalla seconda metà di ottobre quando – cambiamenti climatici permettendo – inizierà a piovere.

resti di un missile per le strade di Kherson (fonte WEB)

Con sempre maggiore chiarezza appare che la fortunata puntata nel sotto-settore di Kharkiv è stata una appendice della grande offensiva che dagli ultimi giorni di agosto l’esercito ucraino sta sostenendo nel sud, tra Kherson e Zaporizhzhia. Potrebbe dunque essere definita come il tentativo, peraltro brillantemente riuscito, di provare qualcosa di diverso da un’altra parte. Tuttavia per una visione complessiva della situazione è bene gettare uno sguardo su quanto sta accadendo sul resto del fronte a cominciare da Kherson, il punto più caldo.

Tra il porto di Mycholayv – baricentro dell’offensiva ucraina – e Kherson, suo obiettivo finale passano una sessantina di chilometri che prima della guerra si potevano coprire in poco più di mezz’ora, percorrendo l’autostrada M14. Oggi partendo dal centro di Mycholayv si arriva più o meno all’altezza del villaggio di Blahodatne, a metà strada tra la città e Kherson. Qui inizia il territorio genericamente controllato dai russi.

La città sul Dnepr è ancora lontana, oltre la linea dell’orizzonte, anche se le granate ucraine la raggiungono facilmente. Meglio ancora le bombe a guida GPS lanciate dagli HIMARS che da oltre un mese bombardano il chilometro e mezzo del ponte Antonevsky e quello della diga a Nova Kakhovka, sessanta chilometri a nord-est. Ci sarebbe anche il ponte ferroviario di Prydniprovske, sei chilometri a nord del ponte Antonevsky ma non sembra più percorribile se non a piedi.

il ponte Antonevsky a Kherson qualche giorno prima dell’offensiva ucraina di fine agosto (fonte WEB)

Da questi tre ponti passano, o meglio passavano, tutti i rifornimenti per la guarnigione russa di Kherson e gli stessi sono o potrebbero essere anche le uniche vie per l’eventuale ritirata dalla città di cui si hanno voci in queste ore. Per il momento tra la prospettiva di rimanere schiacciati dall’attacco ucraino a ovest e un fiume ormai intransitabile a est i russi resistono, cosi come resiste e sopporta la popolazione civile rimasta in città.

Di giorno si vivono gli allarmi dell’antiaerea e le esplosioni dell’artiglieria ucraina. Alla notte appartengono le raffiche e le bombe dei partigiani, giorno per giorno più audaci e agguerriti. Solo di qualche ieri il ferimento di Tetiana Tomilina, nuova rettrice fio-russa dell’università di Kherson che si è trovata la macchina imbottita di esplosivo. Da mesi in città le nuove autorità russe stanno tentando di organizzare un referendum per l’annessione alla Russia, ma al momento la gente sembra avere in testa tutt’altro.

Tetiana Tomilinova, rettore dell’università di Kherson e gravemente ferita in un attentato della resistenza ucraina (foto WEB)

Alla città assediata serve tutto ma la logistica russa, dopo la distruzione dei ponti, può fare affidamento solo su piccoli convogli di chiatte fluviali, precari ponti di barche e imbarcazioni di varia natura, il più delle volte centrati dai colpi dell’artiglieria ucraina. A parti invertite sembra di rivivere quanto accaduto a Severodonetzk all’inizio dell’estate. Insomma la situazione per i russi non è delle migliori; tuttavia l’armata ucraina è ancora molto lontana dall’essere penetrata in città e qualora la facesse il possibile combattimento urbano che ne scaturirebbe costerebbe un elevatissimo prezzo in vite umane.

Per ora l’offensiva ucraina oscilla quindi attorno al chilometro 30 della M14 e all’interno di una fascia di terreno compresa tra il porto fluviale di Olesandrivka, affacciato sull’immenso delta del Dnepr, e la P 81, la strada che da Kherson porta a Sniurivka. Si tratta di una fascia larga poco più di un’ottantina di chilometri e profonda si e no trenta. Qui al momento dicono siano morti circa diecimila soldati ucraini. Un po’ meno i russi, ma sono cifre che non trovano conferma ufficiale in nessuno dei campi.

Il secondo sotto-settore è più a nord anche se rientra sempre nel perimetro della sacca russa di Kherson. Da queste parti l’area coinvolta dall’offensiva di fine agosto si appoggia all’enorme bacino del Dnepr e si spinge verso sud per un centinaio di chilometri. Qui, tra i campi una volta coltivati a girasole e grano, scorre un piccolo fiume, l’Inhulet, affluente di destra del Dnepr che segna più o meno l’attuale linea di contatto tra russi e ucraini. Si tratta di una fascia ampia circa 150 km e profonda 30/40 chilometri dove si può dire che le forze ucraine esercitino un certo controllo.

Tra il minuscolo villaggio di Ternivka e Arkanhelesk, la sponda sinistra del fiume Inhuletz, è invece territorio russo. Anche in questo caso qualche piccolo risultato l’offensiva l’ha ottenuto. Kiev è riuscita a liberare e ora controlla Vysokopillia, Osokorivka, Novovorontsovka e una serie di piccoli villaggi rurali, tuttavia la sacca russa d’oltre-Dnepr è ancora lì e il prezzo pagato per minimi progressi territoriali è stato elevato.

Anche qui, senza ponti e con un fiume immenso da attraversare i russi devono affrontare complessi problemi di logistica e le truppe, da oltre un mese sotto attacco iniziano a logorarsi. Tuttavia è ancora presto per prevederne il cedimento.

ponte ferroviario distrutto nelal oblast di Kherson (foto WEB)

Ma perché i russi si ostinano a mantenere una testa di ponte oltre Dnepr che, verosimilmente, li logorerà per molto tempo? Se escludiamo le ragioni politiche e di prestigio e anche quelle legate a una possibile benché poco probabile offensiva russa contro Mykolayv e Odessa, mantenere il “balcone su Odessaper Mosca significa avere le mani sul rubinetto che permette alla Crimea di sopravvivere. Proprio da Nova Khakovka e dal suo martoriato ponte sulla diga nasce infatti il grande canale artificiale che dopo 400 chilometri porta acqua dolce e costante alla penisola di Kerk in Crimea. Nel 2021, un anno prima dell’invasione, senza quell’acqua la superficie coltivata in Crimea si era ridotta da 130.000 ettari a soli 12.000. Questa è una buona ragione per tener duro.

ponte di barche gittato dal genio russo nel corso di un’esercitazione (fonte WEB)

In sintesi da fine agosto la costosa e sanguinosa offensiva ucraina nel sud, pur avendo impegnato la maggior parte delle forze operative di Kiev non ha prodotto gran che.

Un effetto a ben guardare l’ha comunque ottenuto, quello cioè di costringere il comando russo a concentrare qui oltre il 70% delle proprie unità. Più nel dettaglio in quest’area ad oggi operano circa 20 o 25 gruppi tattici e altrettanti sono tenuti in riserva per alimentare le unità a contatto ed eventualmente per reagire nel caso le cose si mettessero male. Costringere a sguarnire il settore del Donbas e quello di Kharkiv sembra dunque essere stato l’unico risultato davvero significativo finora raggiunto sul piano tattico.

Più a nord, nel Donbas, nessuno parla più di liberare Severodonetsk e Lysichansk. Almeno non a breve. Da Donetz, su fino a Horlivka e a Lysichansk, il fronte si è più o meno stabilizzato, anche se la linea di contatto è ora molto più vicina alle cittadine ancora controllate dai russi.

Resti di un carro russo bruciato nei pressi di Kromatorsk (foto WEB)

Qualche buon progresso è stato fatto dalle parti di Lysychansk dove le forze ucraine hanno liberato Bilohorivka, dieci chilometri in linea d’aria dalla città gemella di Severodonetz. Si tratta però di una conquista di scarso valore tattico visto che l’autostrada T13-40 che collega quest’ultima con il sud del Donbas, così come la ferrovia per Popasna e Donetz sono ancora saldamente in mano russa sebbene battute dall’artiglieria ucraina e sotto il costante pericolo di sabotaggi e imboscate da parte della resistenza.

Strade, autostrade e ferrovie sono infatti tra i principali obiettivi tattico-operativi dei due contendenti. In un territorio pianeggiante, in larga parte coperto da campi pronti a trasformarsi in pantani intransitabili, punteggiati da foreste e paludi, attraversato da fiumi che a tratti sembrano mari, il possesso e il controllo delle strade asfaltate, dei ponti e delle ferrovie è vitale.

un tratto della autostrada ucraina M 03 (foto WEB)

Siamo dunque in quello che già dal 2014 era stato definito il cuore della posizione difensiva ucraina: il confine orientale tra il Donbas e le regioni (oblast) di Dnipripetovsk e Zaporizhzha, soprattutto nel tratto a nord di Sloviansk fino a Izium e da Kramatorsk a sud verso Horlivka. Qui la linea di contatto corre a una decina di chilometri parallela al tracciato dell’autostrada M03 fino a sfiorare Lyman, cittadina e importante scalo ferroviario che prima dell’offensiva si trovava quasi nelle retrovie. E’ proprio di fronte a Lyman che gli ucraini hanno avuto un buon successo riuscendo a superare il fiume Seversky Donetz poco ad est di Raihorodoc dove i russi non sono riusciti o non hanno voluto far saltare i ponti sul fiume. Si tratta di un viadotto stradale sulla statale T05-14, di un ponte ferroviario della linea Lyman-Sloviansk e di un attraversamento sopra una diga.

la linea del fronte nei pressi di Lyman (foto WEB)

Lyman è dunque ancora in mano ai russi e sarebbe per loro una buona notizia considerando il grosso scalo ferroviario dal quale si possono raggiungere Izium, Balklya e infine Kharkiv, ma queste sono ormai città in mano ucraina. A che serve dunque tenere Lyman? Verso nord davvero a poco, ma verso sud la ferrovia corre ancora in territorio controllato dai russi e in tempi di crisi logistica è una buona notizia. Si tratta infatti della possibilità di organizzare convogli ferroviari che possono ancora raggiungere il Donbas settentrionale, distante appena un centinaio di chilometri. Se invece Mosca perdesse anche questo snodo le possibilità di garantire un minimo di approvvigionamenti al sud decadrebbero drammaticamente, visto che l’altra linea ferroviaria corre circa 40 chilometri più ad est.

In quella direzione si è infatti indirizzata la seconda spinta delle forze ucraine in questo sotto-settore che ha puntato diretto verso Pryvillia e Novodruzhesk, villaggi a soli sei o sette km dall’autostrada P66 per Severodonetzk e la sua ferrovia. Per ora qui gli ucraini si sono sistemati a Bilohorivka, contendendo ai russi la grande ansa che il Seversky Donetz fa poco più a est.

Soldati ucraini nei pressi di Kupiansk (foto WEB)

A nord, il settore di Kharkiv rappresenta il maggior successo per i soldati di Kiev dall’inizio dell’operazione militare speciale. Si tratta indiscutibilmente di una bella vittoria sia sotto il profilo morale, sia per il consistente spazio liberato e sia, non ultimo, per aver gravemente danneggiato le linee di rifornimento russe che dalla Russia alimentavano tutto il Donbas.

La ferrovia e la grande autostrada M03 per Mosca ora non esistono più. Inutile quindi ostinarsi a difendere un terreno che persi gli incroci e gli scali non ha più alcun valore tattico-logistico. Meglio è stato per l’esercito di Mosca ripiegare oltre il fiume Oskyl che da nord a sud attraversa tutto il settore.

Quella dell’Oskyl è infatti una posizione molto più forte e difendibile di quelle abbandonate pochi giorni orsono. Per di più la nuova linea consente una significativa riduzione della lunghezza del fronte con il conseguente vantaggio di dare un po’ più di densità alle poche forze che il comando russo ha lasciato a presidio di questo settore.

Per correttezza e per correggere l’immagine diffusa in occidente di una fuga precipitosa è doveroso ricordare come la piccola guarnigione a presidio di Balaklya, località che sembra essere stata investita per prima dall’incursione ucraina, ha resistito per due giorni prima di ritirarsi, a piedi, protetta dagli elicotteri d’attacco. Questo, come molti altri presidi, erano composti non da iper addestrati spetznaz e neppure da truci mercenari del Gruppo Wagner ma da miliziani del Donbas e dai soldati della Rosgvardiya, la Guardia Nazionale Russa, in cui sono confluiti un po’ tutti i corpi con qualche addestramento militare della Federazione .

Il rapido abbandono della posizioni a sud e attorno a Kharkiv e l’altrettanto veloce arretramento del fronte dietro il fiume Oskyl, oltre a testimoniare della ottima tattica di combattimento messa in atto dagli ucraini sulla quale torneremo tra poco, ha reso altresì evidente come le forze russe assegnate al settore, in tutto una quindicina di gruppi tattici, fossero di gran lunga inadeguati al compito.

Posto di fronte alla scelta se tenere il terreno e sacrificare uomini o consentire agli ucraini di espandersi preservando il capitale umano sembra che il comando russo non abbia avuto esitazioni. Preserviamo gli uomini e sul perché torneremo più avanti. Per ora concentriamoci invece sulla tattica messa in campo dagli ucraini.

Per avere un’immagine quanto più possibile vicina ai fatti si possono riesumare Guderian e la campagna di Francia del 1940. Vale a dire una rapida e decisa puntata corazzata, concentrata in un settore molto limitato e disposta a proseguire quanto più avanti possibile.

Carro T90 russo (foto WEB)

A differenza di quanto si era tentato e si continuava a tentare a sud, il comando ucraino ha infatti preferito costituire una piccola forza completamente meccanizzata e corazzata, lanciata su una sola via di penetrazione e sostenuta da un fuoco di artiglieria estremamente preciso e concentrato su obiettivi selezionati.

Invece di una spallata di fanteria si è dunque pensato a un pugnale corazzato da far penetrare nel cuore della difesa russa; cuore peraltro già molto indebolito.

Voci sempre più insistenti e diversificate indicano infine che tra queste truppe non fossero pochi i volontari polacchi e statunitensi, gente addestrata alla guerra corazzata e spesso dotata di esperienza pratica, magari maturata nel Golfo o in Afghanistan. Va ricordato infatti che già dall’inizio del conflitto la Polonia ha consentito all’arruolamento di suoi militari nell’esercito ucraino, concedendo loro una sorta di “congedo temporaneo”.

In analogia con il Gruppo Wagner anche Washington dal canto suo ha reclutato non pochi veterani da inviare in teatro in forma volontaria e inseriti in compagnie di sicurezza private. Si tratta non solo e non sempre di istruttori o addetti alla logistica di aderenza, ma spesso anche di uomini da prima linea. Analogo discorso può essere fatto per i britannici anch’essi tutt’altro che rari tra le trincee e sui carri in Donbas.

Come hanno reagito i russi a questo pugnale che ora per ora penetrava sempre più in profondità? Cercando di lasciare il vuoto, barattando spazio con vite. E’ questo infatti il principale vulnus dell’armata russa in ucraina: la mancanza di uomini.

L’operazione militare speciale non è infatti solo un trucco di cosmesi lessicale per nascondere la guerra, ma è l’unico modo per tenere l’esercito russo – quello vero – fuori dal conflitto. Finché il Cremlino non dichiarerà la mobilitazione generale e quindi la guerra all’Ucraina, non sarà possibile per Putin attingere alle centinaia di migliaia di soldati, quasi tutti di leva, che compongono oggi l’esercito russo di stanza in patria.

Nessuno, neppure Putin può infatti obbligare un giovane coscritto moscovita a combattere sul Dnepr a meno che la Russia non dichiari ufficialmente guerra. Per un’operazione militare speciale si può infatto attingere solo alla parte professionale dell’esercito che riguarda poco più di un terzo della forza terrestre di Mosca.

Ai reparti regolari russi si sono dovute affiancare le milizie separatiste di Donetsk e di Lugansk, i ceceni di Kadirov, i mercenari del Gruppo Wagner, un pugno di volontari stranieri e qualche centinaio di soldatini di leva a cui comunque ritrovarsi in Donbas non spaventa. Alla fine si è arrivati a meno di 200.000 uomini. Pochi per una campagna che dura da oltre sei mesi.

Quel che è accaduto a Kharkiv e dintorni è dunque il risultato di errori e di problemi irrisolti in seno all’esercito russo. Guai che possono essere sintetizzati in primis nella eterogeneità dell’armata e nella mancanza di un vero comando unificato dell’operazione. Secondariamente in un’organizzazione e in strumenti logistici non adeguati a un teatro così vasto e a una durata tanto lunga. Non vanno poi dimenticati la mancanza di un adeguato numero di rimpiazzi cui si aggiunge lo scarso addestramento al combattimento delle reclute per concludere con qualche inevitabile errore tattico che dei fattori elencati finora rappresenta l’unico a cui ci si deve rassegnare.

Sul primo fattore, l’eterogeneità dell’armata, è bene soffermarsi.

Negli ultimi tre o quattro mesi è apparsa con sempre maggior evidenza la mancanza o per lo meno la debolezza dell’azione di comando, controllo e soprattutto coordinamento sull’operazione. Al di là delle capacità dei generali e dei loro stati maggiori e al netto delle interferenze del Cremlino sulla pianificazione e sulla condotta, è innegabile come l’armata russa di Ucraina si presenti non come un solo compatto meccanismo ma piuttosto un’antologia di eserciti diversi, ciascuno con un proprio comandante e proprie ambizioni, alcuni pesantemente armati, ben pagati e motivati, altri che, al contrario, non hanno neppure di che sopravvivere.

Le diverse formazioni che compongono l’armata, siano essi i contractors di Wagner, i miliziani, i Ceceni o le truppe regolari non si fidano molto l’uno dell’altro e hanno la tendenza dura a morire di operare a compartimenti stagni mandando avanti il fesso di turno.

Procedure tattiche, disciplina, comportamenti nei confronti di civili e prigionieri variano quindi e molto a seconda di chi ci si trova di fronte e su questo il vertice militare non sempre è in grado di esercitare un adeguato controllo.

miliziani del Lugansk posano per una foto ricordo (foto WEB)

Ad esempio c’è una forte differenza tra i battaglioni e i reggimenti della autoproclamata “repubblica di Lugansk” e quelli della gemella repubblica di Donetsk. I primi sono formati in larga parte da profughi interni provenienti dai territori occupati; gente poco motivata, male armata e peggio equipaggiata che si trova spesso a combattere da tutt’altra parte rispetto ai territori d’origine. I secondi dimostrano uno spirito combattivo e un coordinamento nell’agire di tutt’altro livello. Come mai? Difficile a dirsi ma la differenza in campo si sente. Accanto a questa armata abbastanza scalcinata si trovano i reparti di “wagneriani”, gli oltre 5000 contractors che dipendono dalla “Gruppo Wagner s.r.l.”.

contractors del Gruppo Wagner (foto WEB)

Si tratta di ex-militari, in gran parte provenienti dai corpi speciali che hanno già combattuto in Siria contro l’ISIS o magari in Repubblica Centroafricana o in Libia. Insomma gente con il pelo sullo stomaco che prende ordini solo dal proprio manager-presidente Evgenij Viktorovič Prigožin che li paga profumatamente e da nessun altro.

Difficile quindi per il comando russo inserire questa gente in un piano di battaglia coordinato con esercito regolare, milizie popolari e magari i barbuti ceceni di Kadirov. Compiti diversi, rischi diversi, armi e materiali diverse e non ultime paghe diverse non contribuiscono certo a fare dell’esercito di Mosca in Ucraina una sola schiera.

E dall’altra parte? Qual è la situazione tra i militari di Kiev e quali le differenze con i soldati dell’altra parte?

Ce n’è una che salta immediatamente all’occhio: gli ucraini, a differenza dei russi, combattono per la libertà e l’integrità del loro paese, cioè per casa loro. Il fatto non è da sottovalutare.

forze speciali italiane (foto WEB)

E’ pur vero che le provenienze regionali fanno la differenza anche tra l’esercito di Kiev per il quale un reggimento galiziano che parla solo ucraino o polacco è molto diverso da uno delle pianure del Donbas. Inoltre Kiev, decretando la mobilitazione generale all’indomani dell’invasione, ha messo il suo esercito al riparo dalla mancanza di personale.

I giovani ucraini in età di leva e i riservisti sono infatti tutti mobilitati per le esigenze dell’esercito. Tutti? Magari proprio tutti no. Come al solito chi poteva vantare qualche aderenza o aveva un buon conto in banca ha fatto in tempo a trovare il modo di espatriare in Polonia, Germania o nei Paesi baltici. E non dovevano essere pochi visto che Kiev già da mesi ha chiesto alla Polonia di fornirgli l’elenco dei giovani in età di leva rifugiatisi oltre confine e eventualmente di rimandarli a casa a difendere la patria. Le reclute quindi non mancano. Il problema è dar loro un grado di addestramento e di coesione sufficienti a poter essere impiegati poi in combattimento.

A parte i campi di addestramento nella Ucraina occidentale e al confine con la Polonia c’è da ricordare come Stati Uniti, Canada, Danimarca, Polonia e persino l’Italia  si sono dette disponibili ad addestrare centinaia se non migliaia di reclute alle moderne tecniche di combattimento e all’utilizzo di armi ed equipaggiamenti fino a qualche mese fa del tutto sconosciuti. Il Regno Unito di Boris Johnson si è addirittura preso l’impegno di sfornare ogni tre mesi 10.000 nuovi combattenti. Obiettivo molto ambizioso ma che i britannici perseguono con tenacia in quattro basi all’uopo dedicate in Gran Bretagna.

centro di addestramento al combattimento negli abitati in Gran Bretagna (fonte WEB)

Esiste poi un aspetto economico che non va certo dimenticato. La massa della povera gente che non ha avuto la possibilità di fuggire o che ha scelto di rimanere a combattere sta trovando nel mestiere delle armi un modo di sopravvivere. Almeno finché un colpo di artiglieria non li uccide.

Certo l’aspetto morale conta molto, il richiamo alla difesa della patria forse anche di più ma a fronte di un salario medio da operaio di circa 14.000 grivnia (meno di 400 euro/mese) riceverne 30.000 (800 euro) per fare il soldato di certo non dispiace. E meglio va a un giovane diplomato o laureato che arruolato come sottotenente o sergente maggiore si vede corrispondere una paga di oltre 2.000 euro. Un capitale a Kiev dove mezzo chilo di pane costa 50 centesimi di euro. Bastano i soldi per farsi ammazzare? Di certo no, ma sapere di contribuire a far star meglio la propria famiglia aiuta. Ci sono infine le nuove armi occidentali che ormai arrivano con una certa regolarità e soprattutto i soldi del patto anti-Putin a velocizzare e lubrificare la macchina operativa e logistica di Kiev. D’altra parte lo sanno tutti che c’est l’argent qui fait la guerre  Sulle perdite di entrambe le parti invece non si hanno notizie anche perché le stragi dall’una e dall’altra parte entrano da protagoniste nella continua guerra di propaganda, per cui si gioca a chi la spara più grossa. Tuttavia, se si prendono per buoni i dati dell’ONU e quelli indirettamente forniti dal governo ucraino si sono già abbondantemente superati i 50.000 caduti e si parla dei soli soldati regolari. Dei civili e dei volontari invece sembra essersi perso il conto. Dal lato russo si sa ancora meno.

Veicolo trasporto fanteria BMP 3 russo in operazione in Ucraina (fonte WEB)

Nel frattempo la guerra va comunque avanti macinando molte più vite di quante se ne riescano a rimpiazzare o ad addestrare.

In conclusione quali auspici si possono trarre dalla vittoriosa offensiva ucraina al nord? Di certo che l’esercito russo, con tutti i suoi guai e i suoi limiti, è ancora lontano dall’essere distrutto e di converso quello ucraino non è certo rassegnato a perdere. In particolare la vittoria della armi di Kiev a nord sembra aver convinto Mosca a passare ad una fase successiva dei combattimenti. Non si tratta più di colpire solo o preferibilmente gli obiettivi militari, ma di allargare la distruzione anche a quelle infrastrutture civili ritenute vitali per la resistenza ucraina. Centrali elettriche, cabine di derivazione, stazioni ferroviarie, ponti e dighe sono ora divenute bersagli per i missili e i cacciabombardieri con la Stella Rossa. Qualcuno ha iniziato a ventilare addirittura l’impiego selettivo e limitato di ordigni nucleari tattici, ma siamo ancora a livello di propaganda catastrofista. Si sta accelerando anche sui referendum per l’annessione alla Russia dei territori occupati. Su due piedi viene da chiedersi come mai in mezzo a mille difficoltà si organizzano referendum. A pensarci bene e con un pizzico di malizia si potrebbe immaginare che una volta che Donbas, Zaporizhzhia e Kherson diventano territorio della Madre Russia risulterà più facile spedirci sopra l’esercito che attende dietro la frontiera.

E l’Ucraina nel frattempo che fa? Da molte parti si ipotizza una nuova, limitata offensiva condotta da Zaporizhzhia verso sud. Il sogno sarebbe quello di raggiungere e liberare Mariupol di cui ancora si ricordano i giorni dell’assedio alla AZOVSTAL. Da quelle parti però i russi sono numerosi, ben sistemati e con la base logistica della Crimea a due passi. Dunque l’impresa si presenta dura già in partenza, ma mai dire mai. Si potrebbe anche assistere da qualche parte all’azione di un nuovo pugnale corazzato, ma ora che i russi si sono ritirati oltre il fiume Oskil e hanno rinforzato le difese ritentare la carta vincente a Kharkiv è sempre più difficile.

Con ogni probabilità la guerra quindi continuerà ancora, almeno fino alle piogge di autunno alle cui malinconie Verlaine aveva dedicato i versi “Il lungo singhiozzo dei violini d’autunno ferisce il mio cuore con monotono languore”. Erano i versi che davano il via libera allo sbarco in Normandia, ma questa è davvero solo una coincidenza.

(per la stesura di questo articolo non posso non citare ringraziandolo di cuore MAX BONELLI, autore del prezionso volume ANTIMAIDAN che troverete anche qui tra i suggerimenti di lettura. Più di un’ora di confronto con Max mi hanno aperto a nuovi sguardi su questa complessa realtà che sto tentanto di raccontarvi con il massimo della onestà di cui sono capace. Max Bonelli infatti, oltre ad avere una solida preparazione militare ha anche conoscenza diretta e pregressa dei luoghi e della gente che abbiamo imparato a conoscere da Febbraio. Grazie ancora Max)