KHERSON – per l’orso è tempo di letargo?

L’inverno è alle porte ed è tempo per gli orsi di cadere in letargo. Sarà così anche per l’orso russo? Per tentare una risposta è necessario partire dall’ultima sconfitta di questa guerra: Kherson.

Come al solito Putin ha inviato i suoi gregari a mettere la faccia su questa ennesima figuraccia e i due – Shoygu e Surovikin – lo hanno fatto con l’imbarazzo del bimbo che recita la poesia di natale. A guardarlo meglio l’annuncio del ritiro sembra però rivelare alcuni aspetti interessanti.

vignetta satirica sulla ritirata russa da Kherson apparsa sulla stampa ucraina (foto WEB)

Il primo riguarda i 25.000 russi chiusi a Kherson per i quali passare l’inverno in città sarebbe stata una tragedia. Serrati alle spalle dal fiume e pressati da ogni lato dall’esercito ucraino quella che si andava delineando non sarebbe stata una semplice sconfitta, ma una disfatta. Bene hanno dunque fatto i militari a spingere per abbandonare la città, decisione che, oltre a recuperare migliaia di uomini per le campagne future, ha pure consentito alla guida politica della Federazione di uscire con classe da una brutta figura. Chi non ricorda i proclami su Kherson russa, i referendum di annessione, i piani per impadronirsi di Odessa? Tutto finito? In linea teorica e politica no, ma per fortuna le recenti e impellenti necessità militari hanno obbligato a rivedere temporaneamente la tattica con la quale il Cremlino otterrà, a suo dire, l’inevitabile vittoria.

Carro armato russo distrutto – foto WEB

Quindi la narrativa è ora siamo andati via da Kherson perché così hanno suggerito i militari, ma ritorneremo! Il generale Surovikin, nuovo comandante russo del teatro ucraino, è riuscito ad imporre a Putin di avvallare una scelta tattico-operativa che si stava facendo giorno dopo giorno più impellente. “Armagheddon” – questo il soprannome di Surovikin – sa bene che dopo la rinuncia a Kherson da lui ci si aspettano vittorie, non ulteriori ritirate. Tuttavia oggi immaginare l’esercito russo di nuovo all’offensiva sugli oltre seicento chilometri di fronte è un esercizio di imprudente ottimismo.

Kherson – il ponte Antonovsky sul fiume Dnepr reso inutilizzabile dai russi nella ritirata dalla città (foto RAI News 24)

A Mosca come nei comandi dei gruppi d’armata o nei posti comando delle brigate appena uscite dalla sacca di Kherson a un’offensiva invernale non crede nessuno. Pensare di riattraversare il grande Dnepr, riconquistare la città e magari spingersi fino a Mycholayev e poi a Odessa e magari in Transnistria è fuori discussione. Non basteranno i 500.000 riservisti mobilitati a fine estate e neppure nuove armi e munizioni, sembra infatti che Mosca si sia decisa infine a prendere atto della situazione e a passare alla difensiva.

C’è da credere che i russi si cercheranno un posto lungo la linea di contatto in Donbas e a ridosso delle le rive paludose del Dnepr dove trascorrere i prossimi mesi. Tanto per stare tranquilli, già da tempo si è iniziato a scavare una lunga fila di trincee, disposte su tre linee parallele che, quando ultimate, costeggeranno il corso inferiore del Dnepr dal grande invaso di Nykopol e Zaporizhzha fino al mare. E non basta. Le ruspe sono al lavoro anche più a sud, attraverso l’istmo che collega l’Ucraina alla Crimea. Anche qui altri campi trincerati, caposaldi e opere difensive come nella Francia del 1915 a sottolineare che in un ipotetico negoziato di pace si potrà parlare di tutto ma non della restituzione della Crimea. Il messaggio dei russi è chiaro: ci fermiamo qui e non abbiamo alcuna intenzione di arretrare ancora.

un ponte secondario distrutto dai russi nella zona di Kherson

Si può essere certi che il messaggio è arrivato chiaro anche a Kiev. Le possibilità di successo per un attraversamento in massa del Dnepr in un’ipotetica, futura offensiva da Kherson sono quasi nulle e se possibile ancora minori quelle di superare il sistema difensivo russo a protezione del sud Ucraina e della Crimea. La liberazione di Kherson ha dunque messo in reciproco scacco un segmento di fronte lungo quasi 200 km, aprendo però a nuove, possibili alternative.

Una di queste, forse la più promettente, è dalle parti di Zaporizhzha. Con buona probabilità sarà lungo gli oltre 250 chilometri che separano in grande invaso di Zaporizhzha da Kramatorsk che portrebbe giocarsi la successiva partita. L’accorciamento della linea del fronte conseguente alla cessione di Kherson ha permesso a entrambi i contendenti di recuperare migliaia di uomini e parecchio materiale e soprattutto per Mosca Kherson ha smesso di essere una ferita aperta, un luogo capace di drenare per mesi migliaia di soldati e tonnellate su tonnellate di materiali. Sulla linea di contatto tra Zaporizhzha e Kramatorsk già da ora si stanno concentrando molte delle unità finora impiegate a Kherson, una maggiore densità che fa facilmente pensare a combattimenti più duri e a maggiori perdite.

difese passive contro carri (denti di drago) nel Donbas. Analoghe difese sono in via di completamento anche nella Crimea settentrionale (fonte WEB)

Per comprendere l’importanza di questa nuova area di combattimento basti pensare che dalla linea del fronte al mare ci sono si e no 150 km. Una tentazione davvero forte per il vittorioso esercito ucraino per spingersi verso Melitopol o addirittura verso i porti di Berdiansk e Mariupol. Se questa ipotetica offensiva riuscisse l’intero settore russo si troverebbe divise in grandi sacche isolate. A nord il Donbas a quel punto minacciato non solo da nord ma anche da sud e da ovest; a sud l’ipotetica nuova sacca si troverebbe logisticamente isolata e compressa tra l’esercito ucraino e il mare, mentre la Crimea diverrebbe un’isola assediata. Il pericolo è troppo grande perché i comandi russi non sappiano che proprio qui potrebbe giocarsi la battaglia decisiva di tutta questa guerra insensata.

Dintorni di Khersone – Militari ucraini nei pressi della diga di Nova Kakoska (fonte EPA)

Se questo è il possibile, futuro piano viene da chiedersi quando sarà possibile metterlo in atto. L’inverno è alle porte e i due contendenti lo attendono con speranze diametralmente opposte. Kiev non vorrebbe interrompere il momento a lei favorevole che dura ormai da metà estate, proseguendo l’offensiva dove e come si può. All’opposto Mosca spera proprio nell’inverno per fermare la catena di gravi insuccessi che finora ne ha costellato l’azione e magari riprendere l’iniziativa in primavera. L’inverno è quindi per entrambi un fattore decisivo, ma per un approccio corretto all’argomento è bene interrogarsi su cosa è l’inverno da quelle parti e quali vincoli pone alla manovra degli eserciti. In realtà in Ucraina la lunga stagione fredda è suddivisa in tre periodi ben distinti, ciascuno dei quali favorisce o preclude le attività militari. La stazione inizia con un lungo periodo autunnale delle piogge, la cosiddetta stagione del fango o rasputitza che rende impossibili i movimenti fuori strada, obbligando uomini e veicoli a rimanere sulle principali strade asfaltate o in cemento. In altri termini questo periodo è in grado di fermare quasi ogni possibilità di manovra terrestre e pone severi vincoli anche all’impiego dell’aeronautica. La rasputitza copre circa una quarantina di giorni tra ottobre e novembre e si ripresenta poi con caratteristiche identiche in primavera con il disgelo. Nel mezzo è il tempo dell’inverno.

un tratto di strada distrutto e minato dai russi in ritirata (fonte WEB)

Sebbene negli ultimi decenni anche da quelle parti la temperatura media invernale sia aumentata di alcuni gradi rispetto ai decenni precedenti questa oscilla ancora tra i meno quindici e gli zero gradi sempre che l’anticiclone russo-siberiano non ci metta lo zampino facendola precipitare a trenta sottozero. Ciò significa che per tutto l’inverno il suolo rimarrà ghiacciato e coperto di neve permettendo a veicoli e carri armati di muovere di nuovo fuori strada senza più correre il rischio di essere inghiottiti dal fango.

Dunque in linea teorica l’inverno permetterebbe la ripresa di operazioni terrestri su scala medio-piccola, ma a quale prezzo? In quelle condizioni non solo combattere è molto difficile ma anche ogni attività logistica è più costosa e complessa. Si consuma più carburante; i mezzi sono sottoposti a sollecitazioni maggiori; le manutenzioni sono più difficili così come il personale ha bisogno di equipaggiamenti decisamente migliori senza contare che l’intero campo di battaglia sarebbe avvolto dal buio per gran parte del tempo.

2^ guerra mondiale – Militari tedeschi tentano di liberare un autocarro leggero dal fango nel periodo della “rasputitza

Di fronte a questo scenario l’esercito russo non si presenta certo in buone condizioni. Dopo le sconfitte e gli arretramenti dell’estate e dell’autunno sembra aver preso consapevolezza di quanto sia necessario interrompere questa spirale di eventi sfavorevoli, bloccando la situazione così com’è. Ecco quindi la decisione di organizzarsi per tenere una linea del fronte robusta e difendibile. Da settimane nella regione di Luhansk come sulla riva sinistra del Dnepr e in Crimea si stanno scavando trincee, ripari e bunker dove trascorrere l’inverno. Certo non è come starsene in una città o in un villaggio, ma Mosca non si può permettere di lasciare agli ucraini alcun varco. Alcune delle migliaia di coscritti arruolati con l’ultima mobilitazione trascorreranno già il loro primo natale in trincea. Forse si pensa che impegnarli per qualche mese in compiti di sorveglianza e in combattimenti a bassa intensità sia un buon sistema per renderli davvero pronti per l’offensiva futura. Questa sorta di “training-on-the-job” non è una novità e potrebbe anche funzionare a patto che i soldati nelle trincee del Donbas, come a Zaporizhzha o sul fronte del Dnepr non si sentano abbandonati. Rifornimenti costanti, buoni equipaggiamenti, addestramento mirato, cibo di qualità, turni di riposo regolari, una disciplina non vessatoria sono la chiave per mantenere il morale a livelli accettabili e sperare a primavera di avere soldati veri. Il resto dell’esercito sembra che si stia preparando e addestrando nelle basi e nei poligoni messi a disposizione da Lukaschenko in Bielorussia.

Manifestazione nazionalista del movimento NASHI a Mosca nel 2007. (foto WEB)

C’è però un’altra ragione, questa volta interna alla Federazione, per la quale un rallentamento invernale sarebbe benvenuto. Il governo di Mosca ha sempre più bisogno di mobilitare le energie morali e di consenso del popolo russo verso questa guerra che finora è vissuta con relativo distacco. Per dirla con Clausewitz si tratta di stimolare una volksbewaffung, la guerra di popolo, che sostituisca quella di Putin e dell’establishment. In questo caso i mezzi sono diversi dai carri armati e dai droni. Si guarda infatti alla narrativa delle ragioni e dei pericoli della guerra dipingendo l’Ucraina come un luogo ormai preda del Male, manipolato e contaminato dai disvalori occidentali e in grado di portare un attacco letale alla dusha velicoy materi rusi, l’anima della grande madre dei russi. La guerra come esorcismo, dunque. Far arrivare il messaggio sarà dura perché da qualche parte inizia a trapelare il fatto che le cose non vadano poi così bene come era stato annunciato all’inizio dell’avventura; tuttavia il Cremlino conta di riuscirci entro quest’inverno.

soldati ucraini in inverno (foto WEB)

C’è un ulteriore aspetto da considerare per meglio comprendere l’attuale passaggio alla difensiva e le prospettive per il futuro immediato. Si tratta della inviolabilità della Terra russa che i discussi referendum dei mesi scorsi hanno formalmente ribadito. Sebbene qui in Occidente essi siano stati giustamente bollati come ignobile farsa non è da sottovalutare l’impatto che la decisione ha avuto all’interno della Federazione. Dichiararli parte della Russia e pertanto non più cedibili ha indicato infatti lo scopo finale dell’intera operazione speciale, derubricando a semplice necessità tattica il temporaneo abbandono di alcune città e territori. “Temporaneo” è quindi l’aggettivo su cui concentrarsi anche se, al momento, la situazione dell’apparato militare russo non fa prevedere la possibilità di riprenderli. Liberare i territori russi dalla mano malvagia dell’Occidente rientra perfettamente nella costruzione del pathos popolare alla guerra.

Fuori dai confini della Federazione russa l’inverno, in Europa declinato attraverso la lente della montante inflazione e l’aumento dei costi dell’energia, potrebbe rendere qualche servizio a Putin producendo un’incrinatura del blocco Euro-americano e conseguentemente l’indebolimento del sostegno al governo di Kiev.

soldato ucraino in una trincea del Donbas nell’inverno scorso (foto WEB)

E da parte ucraina? E’ facile immaginare come per Kiev l’obiettivo dell’inverno è impedire che tutto ciò si realizzi ad iniziare dalla stabilizzazione dal rafforzamento della linea del fronte. Per lo stato maggiore di Kiev non c’è alcuna ragione per concedere a Mosca una pausa nei combattimenti; tutt’altro. Combattere nel periodo della rasputitza come in pieno inverno è certo difficile ma non impossibile. D’altronde la storia è piena di campagne militari invernali di grande successo, per cui perché non tentare? Si tratta di scegliere gli obiettivi giusti e quali migliori della malandata rete logistica russa. Colpire gli assi viari, i depositi, le officine, le ferrovie e ogni luogo o attività logistica anemizza le possibilità dei russi di presentarsi pronti all’ipotetica offensiva di primavera. Tuttavia per raggiungere questo obiettivo Kiev dipende quasi essenzialmente dal supporto occidentale in termini di copertura informativa e, soprattutto di missili e artiglieria, senza comunque sottovalutare gli attacchi partigiani e delle forze speciali. Contrariamente a Mosca, Kiev sta dunque lavorando per un inverno ad alta intensità il cui carburante è però nelle mani dell’amministrazione Biden e degli altri alleati. E’ di queste ore il vertice G20 in Indonesia dove oltre alle attese condanne della guerra sta emergendo una minima e condivisa volontà di concludere presto il capitolo Ucraina. Significa parlare di compromesso e di concessioni che andranno comunque di traverso ai due protagonisti di questa scellerata avventura, ma come diceva il vecchio cancelliere Bismark, la politica non è forse l’arte del possibile? Come al solito, vedremo.                                                   

KHERSON – io vorrei, non vorrei, ma se vuoi…

Cosa sta succedendo in città tra annunci di ritiro, timori per una trappola e speranze per una trattativa.

Sergej Šojgu, ministro della difesa della federazione russa, con l’empatia comunicativa di un citofono, alla fine l’ha annunciato. I russi se ne vanno da Kherson l’ultima e anche unica grande città in mano all’esercito di Putin. Gli ha fatto sponda un’altra faccia patibolare, quella del generale Surovikin, il quale ha aggiunto che il riposizionamento (mai chiamarlo ritirata) si è reso necessario per salvaguardare la vita dei soldati e meraviglia non poco sentire queste parole pronunciate da chi in Siria si era guadagnato il soprannome di “Armagheddon”, prendiamolo comunque per buono. Chi invece a questo ritiro non sembra crederci fino in fondo è Kiev. Nella sua ultima apparizione televisiva il presidente Zelensky ha annunciato la liberazione di una trentina tra villaggi e fattorie attorno a Kherson, ma non ha fatto alcun cenno a quest’ultimo; anzi tutt’altro. Da più parti si sospetta che l’annunciato ritiro sia in realtà una trappola, un’esca per far abboccare i reparti di Kiev e costringerli a un massacrante e prolungato combattimento nei centri abitati, incubo di qualsiasi esercito. Qualche esempio? Che ne dite di Stalingrado, Aleppo, Beirut, Sarajevo?

I timori di Zelensky e del suo Stato Maggiore non si limitano a questo scenario, ma si estendono a considerare possibile e forse anche probabile che i russi facciano saltare in aria la grande diga di Nova Kakovka, quella che, sbarrando il corso al Dnepr, ha formato un enorme invaso lungo quasi 200 chilometri che dalla diga arriva a nord fino a Zaporizhzha. Liberare una tale massa d’acqua significherebbe cancellare Kherson e modificare l’intera orografia della zona. Qualche precedente, come le dighe sul Inhulet c’è stato. Ma per tornare ai dubbi sul ritiro vanno citati anche quelli della stessa NATO espressi per bocca del suo Segretario Generale, il norvegese Jens Stoltenberg, il quale solo ieri si è limitato a commentare che se il ritiro da Kherson fosse confermato si tratterebbe di una grave smacco per l’esercito di Mosca, ma pur sempre di un se si tratta.

E’ quindi lecito chiedersi se nel mondo dei satelliti spia e della possibilità di osservare il campo di battaglia fin nei suoi più minuti particolari è possibile davvero avere di questi dubbi. A premessa è bene dire che si, è possibile. Non certo riguardo all’osservazione diretta di ciò che avviene o non avviene sul terreno; in questo campo i margini di incertezza sono davvero pochi. Quel che è più difficile capire è dove vuole andare a parare Mosca annunciando urbi et orbi quella che da tutti viene interpretata come una grave sconfitta.

 Partiamo come al solito dai fatti. Kherson è stata la prima città ucraina occupata all’inizio della “operazione militare speciale”. Ci avevano pensato le unità russe provenienti dalla vicina Crimea, occupandola senza sparare un colpo. Si tratta di una città di oltre trecentomila abitanti, che si affaccia su uno dei tratti più ampi del Dnepr e che è attraversata da una serie di altri fiumi e canali che ne fanno una sorta di Amsterdam del Mar Nero. Le ragioni che avevano spinto Mosca a prendere immediatamente la città erano sostanzialmente due. La prima è che da lì, ma soprattutto dalla cittadina di Nova Kakhovka, si controlla il tratto iniziale del Grande Canale Nord Crimea, l’arteria di acqua dolce che permette a metà della Crimea di sopravvivere. La seconda risiedeva nell’idea di utilizzare Kherson, la cosiddetta “terrazza su Odessa” come base per una futura offensiva contro il porto sul Mar Nero, distante poco più di un centinaio di chilometri. Nei mesi la situazione è andata però cambiando, a danno dei piani di Mosca e soprattutto dei suoi soldati.

Dall’inizio dell’estate Kherson e i suoi dintorni sono infatti sotto costante pressione dell’esercito di Kiev. Ci sono state alcune puntate offensive, altri attacchi diretti contro questo o quel villaggio, l’aeroporto internazionale è inutilizzabile senza però realizzare un vero e proprio sfondamento. Tuttavia quello che agli ucraini è riuscito perfettamente è il blocco della città e di gran parte dei dintorni che l’ha tagliata fuori dal resto della zona in mano ai Russi. In questo si sono dimostrati decisivi gli HIMARS, le bombe a guida GPS fornite in grande numero degli USA. Si deve in gran parte a questo munizionamento di estrema precisione e potenza la distruzione o il danneggiamento di tutti i ponti che congiungono la sponda est con quella ovest della città. Il principale di questi è il grande ponte Antonevsky oggi ridotto a poco più di una passerella pedonale, ma sorte peggiore è toccata al ponte ferroviario di Pridnyprovske, a quello di Thyahinka e a tutti gli altri passaggi che permettevano la circolazione sull’intricata rete di fiumi e canali che disegna la città.Come risultato oltre 200.000 abitanti e 20.000 soldati russi sono stati tagliati fuori dalla possibilità di essere riforniti con continuità di qualsiasi genere di bene: dalla farina alle granate di artiglieria.

Per tutta l’estate l’armata russa si è ostinata a realizzare precari ponti di barche, pontoni galleggianti, barchette e anche un servizio di chiatte fluviali per assicurarsi un minimo di flusso logistico. Inutile dire che ognuno di questi si è rivelato un perfetto bersaglio per gli HIMARS e per l’artiglieria ucraina. Chiusi a est dal fiume Dnepr e circondati a ovest dall’esercito ucraino, le unità del 2° corpo d’armata come pure quelle della 76^ divisione di fanteria e della 106^ divisione di assalto aereo si sono travate e si trovano tutt’ora in una posizione pericolosa. L’abbandono della città si è dunque via, via presentato come l’unico ordine ragionevole dal punto di vista militare, ma non da quello politico.

Dopo la mancata presa di Kiev, la perdita di Kharkiv, l’affondamento dell’incrociatore “Moska”, l’attentato al ponte di Kerch e con l’offensiva in Donbas che arranca, Putin non aveva certo bisogno di un nuovo smacco militare. Si è continuato quindi a rimanere in città, ma durante l’estate qualcosa sembra essere cambiato nel pensiero dei vertici del Cremlino inducendo ad un approccio più realistico. Ci si è infine accorti che tenere Kherson è divenuto troppo costoso in termini di sforzo logistico e ostinarsi potrebbe portare davvero alla fuga precipitosa degli otre 20.000 difensori. Meglio quindi una ripiegamento ordinato che consenta di salvare uomini, mezzi, armi, ma soprattutto la faccia. Per questo motivo, già da un mese, la televisione russa ha iniziato a preparare l’opinione pubblica alla possibilità di “dolorose concessioni” necessarie a salvaguardare vite umane e porre le premesse per una futura vittoria. C’era da aspettarselo visto che l’ordine di mobilitazione parziale emanato dal presidente Putin non è certo stato accolto da grida di giubilo guerresco. Si è iniziato quindi con l’evacuare i civili, quasi 100.000 fino ad oggi, ricorrendo a traballanti pontoni e a traghetti. L’evacuazione della popolazione civile ha impedito all’artiglieria ucraina di battere e distruggere i ponti residui e gli attraversamenti e si può essere certi che i russi ne hanno approfittato saranno per rifornire le truppe in città e iniziare a evacuare qualche equipaggiamento di pregio. Ad oggi si stima che in città siano rimasti tra i 70 e i 90.000 abitati, oltre a gran parte del presidio russo. Kherson è ormai una città fantasma dal destino incerto e intanto i russi hanno iniziato il saccheggio delle abitazioni e degli uffici. Si prende di tutto, dalle auto alle lavatrici segno che nessuno si aspetta di tornare presto in città.

Vale la pena un cenno su come possano andarsene. Nei mesi scorsi l’armata russa ha messo in piedi un elaborato sistema di traghetti per attraversare il Dnepr. Un’organizzazione che prevede punti di raccolta temporanei, approdi mutevoli e tempi rapidissimi per l’attraversamento di piccole quantità di personale ed equipaggiamenti. Ad oggi sembrerebbero attivi dai cinque agli otto punti di attraversamento con traghetti, il tutto sempre sotto l’incombente minaccia dell’artiglieria ucraina che di certo non vuole consentire ai russi di mettere in salvo il meglio dei loro armamenti. Sebbene dunque il ritiro sia in atto già da giorni, rimane da chiedersi cosa faranno sarà i soldati lasciati in città. Anche in questo caso sembrerebbe che il comando russo abbia deciso di non attivare una difesa a oltranza, stile Stalingrado per intenderci, preferendo lasciare un velo di truppe che con azioni di fuoco, piccoli contrattacchi e temporanee difese di qualche punto nevralgico guadagnerà tempo consentendo così al grosso di ripiegare sulla sponda est. Insomma Mosca vorrebbe scambiare Spazio per Tempo.

La domanda da porsi è però cosa faranno i russi una volta giunti in massa dall’altra parte del fiume? Shoigu ha parlato di difesa della riva orientale, non di ripiegamento chissà dove. Da alcune settimane, lungo la riva orientale del Dnepr, si scava. Per un tratto lungo almeno 200 km si intende costruire una linea difensiva trincerata, sullo stile della prima guerra mondiale, con tanto di casamatte prefabbricate, depositi interrati e filo spinato. Per ora sono stati realizzati meno di una cinquantina di chilometri, ma a opera finita, almeno nell’idea di Mosca, si avrà un complesso su tre linee difensive quasi parallele che dal Mar Nero arriveranno quasi a Zaporizhzha, rendendo molto difficile la ripresa di un’offensiva ucraina da quelle parti e consentendo nel contempo a Mosca di risparmiare forze da utilizzare più a nord, in un settore di fronte molto più ristretto, magari tra Zaporizhzha e Izium o qualche altra città del Donbas.

Questo dunque il piano: abbandonare la parte ovest di Kherson e tenersi quella est, accettando però di trasformarsi in una specie di poligono per l’artiglieria ucraina. Eppure gli ucraini sembrano non fidarsi, al punto che non sembrano approfittare di questo momento di grave crisi degli occupanti russi per sferrare un colpo decisivo. La ritirata o ripiegamento come lo si voglia chiamare è infatti una delle operazioni più difficili, complesse e pericolose che un’unità militare sia costretta ad affrontare. |Si è infatti costretti a difendersi e a combattere senza quasi disporre di un minimo di supporto logistico e nello stesso tempo arretrare in tempi dettati non dalle proprie esigenze ma dalla pressione che il nemico mette addosso. Un’occasione d’oro per Kiev che però sembra procedere con cautela. Viene da chiedersi perché. Al riguardo possiamo fare solo ipotesi. La prima riguarda la possibilità tutt’altro da escludere che Kiev e Mosca abbiano raggiunto un accordo per l’abbandono della città in modo incruento a patto che l’Ucraina consenta l’evacuazione del presidio e la disponibilità futura dell’acqua del Canale Nord Crimea e Mosca da parte sua s’impegni a non difendere a oltranza la città e, soprattutto a non far saltare le dighe. Dietro l’inattività di Kiev potrebbe però anche esserci un caldo invito da parte di Washington a rallentare il ritmo delle operazioni in previsione di un futuro negoziato, visto che in America i giorni in cui Biden era accusato di fare troppo poco per l’Ucraina sembrano ormai lontani, sostituiti dall’accusa di oggi di fare un po’ troppo. Si potrebbe parlare di negoziato, magari già quest’inverno? Forse, ma allora perché mai Mosca ha voluto già lasciare Kherson precludendosi di giocarsi questa carta sul tavolo dei negoziati futuri. Le domande sono molte ma il fatti è che lentamente i russi se ne stanno andando e gli ucraini non ne stanno per ora approfittando. Vedremo nei giorni a venire.

MalanDroni – la guerra a distanza può cambiare le carte in tavola?

L’offensiva ucraina dell’estate si sta esaurendo dopo aver conseguito una serie di clamorosi successi, per molti versi inattesi. La regione di Kharkiv è ormai rientrata sotto il controllo di Kiev; nel settore centrale i russi non hanno completato l’annunciata conquista del Donbas e per ora si accontentano di difendere i dintorni di Severodonetsk e di scavare trincee per qualche decina di chilometri. A sud le cose vanno anche peggio. Kherson, il cosiddetto balcone su Odessa è completamente accerchiata. Ogni tentativo di rifornirla è legato alla possibilità di tenere in piedi qualche traballante ponte di barche, almeno finché una salva di missili HIMARS non lo manderà a fondo. Oltre 70.000 civili hanno abbandonato la città e in molti pronosticano che a breve saranno seguiti dalla guarnigione russa. A cornice del quadro generale è bene ricordare che la centrale nucleare di Energodar è ancora in mano russa, più ostaggio che obiettivo militare e che percorrere il ponte di Kerch, il più lungo d’Europa, fa salire qualche brivido lungo la schiena dopo che meno di un mese fa un camion-bomba l’ha fatto saltare in aria. Stessa cosa per le retrovie dell’operazione militare speciale al di là del confine russo-ucraino.

un drone di fabbricazione iraniana Shaded-136 in procinto di abbattersi su un obiettivo – foto WEB)

L’esercito di Mosca è dunque in grande difficoltà mentre quello ucraino sogna di liberare tutti i territori occupati, Crimea compresa, ma sia l’uno, sia l’altro sanno bene di non essere pienamente padroni del proprio destino. Il Suchoputnye Vojska, così si chiama l’esercito russo, si è scoperto in piena crisi di equipaggiamenti, di armi ma soprattutto di uomini e di leadership. Quello di Kiev dipende per intero dal flusso di denaro e di rifornimenti per ora garantito dall’Occidente. Sarebbe abbastanza per iniziare a pensare a una possibile tregua se non proprio alla pace, ma per Mosca questa è la guerra che dovrebbe alla fine metterla al sicuro dalla minaccia della NATO, mentre per Kiev è l’occasione di porre fine a quattro secoli di sudditanza. Per quanto difficile da comprendere entrambi combattono dunque per la vita. Quindi? Quindi si va avanti e se non si può per terra si tenta in cielo.

drone iraniano Mohajer-6 (foto WEB)

Sul piatto cielo d’Ucraina, dove le città sembrano galleggiare sull’immensa pianura, la Russia sta percorrendo una nuova linea operativa e lo sta facendo in gran parte con mezzi inattesi. Iniziamo dal disegno operativo sviluppato dal comando dell’operazione militare speciale. Preso atto che per tutto l’autunno e per gran parte dell’inverno non sarà possibile riprendere l’iniziativa di nuove offensive terrestri, l’unico modo per mantenere la pressione sul governo di Kiev è degradarne la rete infrastrutturale, energetica e dei rifornimenti essenziali. Via quindi al bombardamento continuo delle centrali elettriche, dei nodi di smistamento ferroviario, delle infrastrutture logistiche, dei metanodotti e degli acquedotti. L’obiettivo è chiaro: far passare un inverno al buio, al freddo e possibilmente anche con poca acqua a tutta l’Ucraina nella speranza che questo ammorbidisca il governo di Kiev inducendolo alla trattativa. Ci riusciranno? E’ tutto da vedere anche perché, come si è accennato, per Kiev questa è un’occasione quasi unica per affrancarsi definitivamente dal secolare abbraccio di Mosca e non tanto Zelensky quanto la sua gente sembra più che decisa a sopportare gravi disagi pur di chiudere la partita.

drone turco Bayraktar in dotazione all’esercito ucraino (foto WEB)

Mosca invece sembra scommettere sul contrario e per condurre il gioco ha deciso di affidarsi a una tecnologia nuova che poi tanto nuova non è: quella dei DRONI. Per primo ricordiamo che ciò che rende diverso un drone da un missile, da un razzo o da un siluro è la possibilità di essere pilotato da remoto in tempo reale lungo tutta la rotta fino al punto di utilizzo. Già perché i droni, altrimenti detti aeromobili o natanti a controllo remoto, non sono fatti solo per autodistruggersi su un obiettivo, ma possono svolgere missioni assai diverse che vanno dalla ricognizione lontana, al bombardamento di obiettivi, alla sorveglianza di aree vaste, al coordinamento di azioni a terra come alla ricerca e soccorso.

drone statunitense Predator MQ-1C dell’aeronautica militare italiana (foto WEB)

L’idea di un oggetto senza pilota in grado di colpire il nemico non è nuova. Sembra infatti che siano stati gli austro-ungarici nel 1849, nella nostra prima guerra di indipendenza, a caricare di esplosivo qualche pallone aerostatico e a spingerlo quindi su Venezia, ma è dagli anni 2000 che la tecnologia dei droni è ampiamente utilizzata in operazioni militari cinetiche. Allora dov’è la novità? Questa in gran parte è rappresentata dall’arrivo nell’arsenale russo di droni di produzione iraniana. Il presidente Zelensky ha parlato di una “collaborazione con il male”, mentre Washington ha evidenziato che il trasferimento di questo tipo di armi viola il divieto di export su alcuni prodotti militari imposto a Teheran dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu su Teheran. La realtà è che questi droni costano poco e funzionano.

un drone navale ucraino spiaggiato sulla costa turca (foto WEB)

Con il miglioramento delle capacità contraeree e grazie alla capillare copertura satellitare e radar dello spazio aereo ucraino per un aereo russo volare oggi sul cielo ucraino è sempre più pericoloso. Per gli elicotteri nemmeno a parlarne. Rimangono i missili balistici e quelli da crociera, ma hanno un difetto che in tempi di sanzioni e di embargo si amplifica giorno per giorno: sono costosi e difficili da costruire ora che reperire le componenti elettroniche necessarie a realizzare i loro complessi sistemi sono quasi introvabili, anche sul mercato clandestino. Fa riflettere infatti che oltre il 60% della componentistica elettronica di un missile russo sia di produzione americana, coreana o giapponese; comunque non russa. Ecco allora come un trabiccolo volante dal costo unitario di poco più di 5.000 dollari rappresenta una soluzione efficace e alla portata di tutti. Mi riferisco essenzialmente al drone iraniano del tipo Shaded-136, che i russi sembrano aver ridipinto e rinominato Geran-2.

Si tratta di velivolo capace di percorrere una rotta di circa 1800 km a una velocità di poco superiore a 180 km/h, volando a una quarantina di metri d’altezza. Certo non è un miracolo di ingegneria aeronautica. Il suo sistema di guida si basa sul GLONAS, la versione russa del nostro GPS e la propulsione è assicurata da un quattro cilindri aeronautico a due tempi da 50 cavalli, più o meno la potenza della vecchia Panda. E’ in grado di trasportare una carica di esplosivo di circa 35 kg, pari a tre granate convenzionali da 155 mm, ma soprattutto costa poco.

Certo non è in grado di colpire obiettivi puntiformi e fugaci come un carro armato o un obice d’artiglieria in movimento, ma per un deposito carburanti, una centrale elettrica, una cabina di smistamento ferroviario va benissimo. In presenza di una buona difesa controaerea le possibilità che un simile aggeggio arrivi a destinazione sono però basse. Si stima infatti che la difesa aerea ucraina sia in grado di abbatterne in volo tra il 60 e l’80%, ma a quale prezzo? Fino ad ora, Kyiv ha potuto proteggersi dalle centinaia di attacchi solamente facendo ricorso a missili terra-aria ex-sovietici S-300 o ai tedeschi Iris-T nonché a sortite della propria aeronautica. Ma queste armi rappresentanto un enorme spreco di risorse di fronte a un sistema d’arma pericoloso ma perfettamente sacrificabile.

veduta aerea della base navale russa a Sebastopoli (foto WEB)

Dall’inizio dell’offensiva aerea russa Zelensky non fa che richiedere armamento contraereo, ma è davvero possibile pensare di proteggere con un simile ombrello tutto il territorio ucraino? E a quale prezzo? D’altra parte non si può neppure far finta di niente e continuare a riparare, rabberciare e sostituire con cadenza giornaliera tutto ciò che viene distrutto.

Dal canto loro i russi, ben consapevoli di maneggiare una tecnologia rudimentale, hanno scelto di impiegare a sciame i loro droni, ad esempio lanciandone una quarantina nella certezza che almeno una decina arriveranno a bersaglio. E il giorno dopo si ricomincia. Oltre al basso costo vediamo di mettere a fuoco quali altri vantaggi possono derivare. In primo luogo si risparmiano non tanto costosissimi aerei ma soprattutto i loro piloti. L’addestramento di un buon pilota da caccia-bombardiere costa infatti qualche milione di dollari ai quali vanno aggiunti quelli per il velivolo che gli viene affidato. Vuoi mettere con una bomba volante pilotabile a distanza che costa meno d’un’utilitaria di seconda mano? Inoltre si deve valutare la costante pressione psicologica e l’insicurezza diffusa alle quali viene sottoposta la popolazione. Si tratta quindi dell’arma perfetta? Non esageriamo. La potenza distruttiva di questi velivoli non è in grado di neutralizzare permanentemente un’infrastruttura, ma riesce comunque a danneggiarla facendola funzionare male e a tratti. Tutto questo almeno fintanto che anche gli ucraini non inizieranno a loro volta a rispondere pan per focaccia. E sembra che già abbiano iniziato. E’ dell’altro ieri infatti la notizia che sei o sette barchini pilotati da remoto, coadiuvati da qualche drone volante, sono riusciti a penetrare all’interno del porto di Sebastopoli, la sede della flotta russa del Mar Nero. Si tratta di una grande base navale costruita su una serie di fiordi e canali stretti e lunghi il cui accesso è angusto e vigilato da reti sommerse anti-intrusione. Eppure i droni-barchini, navigando a pelo d’acqua per qualche centinaia di chilometri, sono riusciti a entrare e a colpire quattro navi all’ormeggio, causando l’affondamento di una di esse mentre i droni volanti colpivano qualche infrastruttura logistica e un cantiere di riparazione. C’è mancato poco che non venissero presi anche due vecchi sottomarini della classe “KILO” (a proulsione diesel/elettrica e non nucleare), ma all’ultimo momento non erano più al molo.

sottomarino russo classe Kilo a propulsione convenzionale (foto WEB)

Poca cosa verrebbe da dire, se non fosse che anche in questo caso si è raggiunto il non trascurabile obiettivo di far sentire insicuri i marinai russi persino a casa loro, obbligando il comando navale a innalzare le misure di sorveglianza e scoperta. In ultima istanza a spendere di più per cercare di stare tranquilli.

Ci stiamo dunque incamminando verso una guerra di droni? In parte sì, anche se lo scenario alla terminator appare abbastanza di là da venire. Più vicino invece può essere il pericolo che queste tecnologie a basso costo, facilmente riproducibili e difficilmente intercettabili entrino a far parte massicciamente dell’arsenale della malavita organizzata o di gruppi terroristici particolarmente intraprendenti. Non ci vuole infatti una gran fantasia a immaginare un barchino pieno di cocaina che navigando a 50 cm dal pelo dell’acqua arriva su qualche costa dell’Europa o del Nord America e neppure un drone costruito in garage che svolazza sul cielo di una città cercando un obiettivo su cui schiantarsi. Di questa preoccupazione si fanno interpreti, ad esempio, gli israeliani che dei razzi sparati da Hamas hanno una pluriennale esperienza. Passare da un tubo di stufa riempito d’esplosivo a un drone con 40 chili di TNT sarebbe per loro un drammatico salto di qualità. Forse per questo Israele si è affrettato a fornire a Kiev alcuni di sistemi di sorveglianza e scoperta in grado di contrastare anche questo tipo di minacce.

In attesa dell’arrivo dell’inverno e della risposta ucraina, Mosca continua a lanciare i sui Geran-2, insieme a qualche grosso missile Kalibr avvertendoci che la guerra sarà ancora lunga.