FINCHE’ C’E’ GUERRA C’E’ SPERANZA: alcune conseguenze economiche della guerra russo-ucraina.

Ad un anno dall’inizio dell’operazione militare speciale molte cose sono cambiate e non solo in Ucraina o nella Federazione russa. Ci si è resi conto che una guerra vecchia maniera in Europa è tutt’altro che un ricordo; che gli eserciti non servono solo per missioni di pace in paesi lontani e che la globalizzazione non è poi così compiuta da impedire a uno stato di attaccarne un altro per ragioni solo a lui note. Tra le espressioni riesumate da un passato prematuramente sepolto c’è l’economia di guerra. Il termine evoca giustamente immagini di gente in fila per un pane striminzito, le tessere annonarie, l’oro alla patria e la borsa nera. Siamo dunque a questo punto? Certamente no, ma non c’è dubbio come l’economia di tutti i giorni sia costretta a fare i conti con questa guerra. E’ bene dunque intenderci su cosa sia un’ economia di guerra.

1935, campagna popoolare “oro alla patria” in occasione delle sanzioni internazionali all’Italia per la guerra di Abissinia.

Secondo una definizione sufficientemente condivisa si tratta di quelle misure, riorganizzazioni e adeguamenti che un moderno stato adotta per orientare la sua intera economia alla produzione di guerra; ovvero, per citare il prof. Stefano Manzocchi, prorettore alla LUISS Guido Carli: “ é la sospensione o il restringimento molto forte dell’economia di mercato, di fatto sostituita da un’economia pianificata in cui a livello centrale si decide cosa si deve produrre e cosa no”. A dar retta infine all’economista francese Philippe Le Billon, autore nel 2000 di Political Economy of War: What Relief Agencies Need to Know, per economia di guerra s’intendono tutte le misure prese per orientare l’economia di uno stato alla violenza. In altri termini quando un paese decide di volgersi all’economia di guerra sposterà il suo intero sistema economico per prepararsi a sostenerla. A conversione terminata si produrranno carri armati, cannoni, missili e aerei a profusione a scapito di tutti i beni materiali e immateriali, dei servizi e delle attività economiche che avevano reso così piacevole la vita in tempo di pace.

Ammodernamento di carri T-72 nella fabbrica Uralvagonzavod di Niznij Tagil.

In Russia e nel resto d’Europa siamo dunque a questo punto? Basta uscire per strada per rendersi conto che ci troviamo in tutt’altra situazione. Certo il conflitto russo-ucraino qualche cambiamento lo ha imposto non solo in Russia, ma anche qui da noi e non parliamo solo del prezzo dei carburanti e delle modifiche alle filiere del commercio internazionale. Chi più, chi meno tutti abbiamo potuto verificare che qualcosa è cambiato nella cosiddetta domanda aggregata, val a dire nella spesa totale per beni e servizi delle famiglie,delle imprese e soprattutto del governo. La guerra russo-ucraina, la possibilità che essa possa estendersi ad altri paesi e la consapevolezza che in occidente molti dei paesi si sono scoperti impreparati ad affrontare una simile evenienza ha costretto a orientare parte della spesa verso il comparto difesa&sicurezza, solo fino all’anno scorso ritenuto marginale e talvolta superfluo. Non solo la Russia e l’Ucraina si sono infatti viste costrette ad aumentare le loro spese militari, ma anche nazioni come la Germania, la Francia e la Gran Bretagna, per non parlare di Polonia, Finlandia e paesi baltici hanno rivisto al rialzo i loro bilanci della difesa. Persino l’Italia che alla difesa ha sempre creduto molto poco, si è vista suo malgrado obbligata ad adeguarsi. 16 marzo 2022, la Camera dei Deputati ha approvato un ordine del giorno che impegna il nostro Paese ad allinearsi alle indicazioni della NATO, aumentando le spese militari. Nel giro dei prossimi sei anni, arriveremo a stanziare il 2% del nostro Prodotto Interno Lordo, contro l’attuale 1,5 %.  Insomma, la possibilità di una guerra in Europa ha riportato d’attualità quello che Joseph Goebbels, ministro della propaganda di Hitler, aveva dichiarato nel 1936 in un celebre discorso a Berlino:”…possiamo fare a meno del burro ma, nonostante tutto il nostro amore per la pace, non possiamo fare a meno di armi!

Torrette di carri T72 in revisione in una fabbrica russa (fonte WEB)

Che effetti avrà nel medio periodo questa corsa agli armamenti? Certo priverà molti altri settori vitali di parte delle già scarse risorse, anche se qualcuno anche in questo caso ha resuscitato il vecchio John Maynard Keynes inventandosi la “economia keynesiana di guerra”. Secondo i sostenitori di questa teoria allo stato potrebbe venire in mente di stabilizzare la recessione o dare un impulso alla stagnazione non dando via al solito programma di lavori pubblici, ma accelerando gli investimenti sul settore della guerra. La ricetta non è certo nuova, basti ricordare cosa era diventata la Germania post Weimar tra il 1930 e il ’39. Sta avvenendo tutto ciò? Non in termini giganteschi come allora ma qualche cambiamento si percepisce. Ad esempio la Repubblica Federale tedesca ha deciso di dotare il settore difesa di cento miliardi di euro tondi, tondi da investire nei prossimi dieci anni, per non parlare della Polonia che ha deciso di destinare il 4% del suo PIL alla difesa e si sta dotando di uno dei più potenti eserciti dell’Europa occidentale. Varsavia, che senza dubbio sente il fiato gelido di Mosca sul collo, ha infatti deciso di acquistare 250 carri armati Abrams dagli USA, 180 carri K2 dalla Corea del Sud, 200 obici semoventi K9 sempre sudcoreani e via così. Viene da chiedersi se questa corsa al riarmo o all’economia keynesiana di guerra sia un riflesso diretto della corrente guerra russo-ucraina. Qualcuno resterà sorpreso nel vedere che da una ricerca del Stockholm International Peace Reserch Institute, uno degli istituti di studi su pace e disarmo più prestigiosi al mondo, già nel 2020 la spesa mondiale destinata agli armamenti era cresciuta del 2,6% arrivando a superare i 2000 miliardi di dollari. In questo studio tra le cinque nazioni che dedicavano alle armi almeno il 4% del proprio PIL, oltre naturalmente agli USA, avremmo trovato la Federazione Russa seguita, indovinate da chi? Proprio dall’Ucraina. Per restare a casa nostra la società LEONARDO del gruppo FINMECCANICA che raggruppa la maggior parte delle nostre industrie della difesa, nel suo bilancio 2022 ha dichiarato ricavi per oltre 9,9 miliardi di euro, vale a dire oltre il 46 % di incremento rispetto al 2021, che pure era stato un anno di crescita eccezionale. Dunque se nella spesa aggregata qualcuno ci ha perso, qualcun altro come al solito ci ha guadagnato.

la catena di montaggio del caccia USA F 35

Viene da chiedersi quali sono gli effetti della guerra sull’offerta aggregata, vale a dire sulla la quantità di beni e di servizi prodotti e offerti sul mercato dalle imprese. A questo riguardo è illuminante accennare agli Stati Uniti. Nel suo ultimo viaggio a Washington Zelensky non ha fatto che chiedere nuove armi e altre munizioni. Perché allora il suo principale alleato, per l’appunto gli Stati Uniti, sono così restii a rifornirlo ai livelli richiesti? Al di là dalle ragioni di sicurezza interna e di equilibri internazionali ve n’è una assai più pratica. Nel 2021 ben il 54% delle budget assegnato al Pentagono è infatti servito per pagare ditte e aziende del comparto difesa in senso stretto. Molti di queste aziende sono oggi restìe ad avviarsi verso la produzione di guerra vera e propria, vale a dire ad aprire nuovi stabilimenti, assumendo e formando nuovo personale per produrre un bene, ad esempio un missile controcarri FGM-148 Javelin, per il quel nessuno può sapere fino a quando ci sarà mercato. Ci vorrebbe una garanzia da parte delle autorità federali americane che il mercato, leggasi la guerra in Ucraina, durerà ancora a lungo, ma al momento non è possibile fornire agli industriali una simile rassicurazione. Non si tratta infatti di aprire un paio di fabbriche e di mettere su doppi turni.

Interno della fabbrica Rheinmetall a Kassell (fonte WEB)

Dando in un’occhiata più da vicino alla struttura produttiva del comparto difesa americano si scopre che in testa alla piramide alimentare ci sono solo cinque super-predatori e segnatamente: Lockeed, Boing, General Dynamics, Raytheon e Northrop Grumman. Un gradino più in basso le cose già si complicano visto che Boing ha 897 aziende che sono sue fornitrici dirette, la General Dynamics ne ha 598, e la Lockeed Martin 408, la Raytheon 223 e la Northrop Grumman, si fa per dire, solo 199. Se si scende infine nella palude dei subappalti si passa a decine di migliaia di piccole e piccolissime aziende ciascuna delle quali produce magari una guarnizione del missile o una semplice vite a testa quadra senza le quali però un Javelin non esce dalla fabbrica. Riconfigurare alle esigenze dell’Ucraina un simile mostro produttivo non significa quindi riaprire un paio di stabilimenti o pagare gli straordinari a qualche migliaio di operai; al contrario è una decisione di politica economica che riguarda un’intera struttura produttiva. Ecco perché il mondo industriale, in assenza di un dato certo sulla durata della guerra oppone forti resistenze a cambiare passo per soddisfare i voraci appetiti dell’armata di Zelensky. La soluzione finora è stata di rivolgersi alle scorte strategiche delle forze armate USA, quelle tanto per intenderci da toccare solo in caso di III guerra mondiale. Qui sono invece i Generali e gli Ammiragli a opporre fiera resistenza. Per ora quindi si chiede a Kiev di consumare meno e con maggiore attenzione, poi si vedrà. Per rimanere in tema di offerta aggregata un’altro effetto è dato dall’accelerazione imposta al progresso tecnologico. Al momento sui campi d’Ucraina non si è ancora visto niente di assolutamente nuovo, a parte l’innovativo impiego di droni a basso costo, ma si deve stare certi che da qualche parte qualcuno sta utilizzando le steppe ucraine come un gigantesco laboratorio per testare nuovi materiali o tecnologie. Da non sottovalutare infine gli effetti della guerra sull’individuazione delle fonti di approvvigionamento energetico. Per ora, almeno in Occidente, tutti stanno pensando a trovare nuovi fornitori di gas e petrolio, ma nel frattempo le ricerche e la tecnologia legata all’economia green hanno subito un significativo balzo in avanti e potrebbero essere un futuro molto più vicino di quanto immaginavamo solo un anno fa.

Rimane da dare un’occhiata agli effetti prodotti dalla guerra sulle supply-chain e, in genere su una struttura produttiva ormai globalizzata. Ve lo ricordate il mantra del periodo del Covid-19 per il quale “niente sarà più come prima”? Sembrerebbe ritornato di moda, stavolta declinato come l’annuncio della prossima fine della globalizzazione. A dire il vero quando all’inizio della pandemia c’eravamo accorti che nazioni ai vertici della produzione industriale mondiale come la nostra non erano in grado di produrre una mascherina di carta da 10 cent avevamo capito che qualcosa andava rivisto nell’architettura produttiva mondiale. Molti stati hanno iniziato a riflettere che, almeno per i settori strategici, un livello minimo di produzione nazionale sarebbe dovuto essere mantenuto e, in alcun casi, ripristinato. La guerra ha solo confermato questa che era ormai un’evidenza, ma da qui a pronosticare la fine della globalizzazione e il ritorno al mondo dei dazi e delle dogane ce ne corre. Visto che siamo in tema di dazi e controlli è inevitabile dare un’occhiata al tema delle sanzioni. E’esperienza condivisa che le sanzioni in primis danneggino chi le emana e solo secondariamente chi le subisce. Gli esempi in questo caso non mancano, basti pensare a Cuba sotto embargo dai tempi di Fidel Castro, all’Iran komeinista, alla Corea del Nord e via così. Ora è il tempo della Russia di Putin per la quale si era pronosticata una caduta verticale del PIL inizialmente del 12% annuo, poi del 7% e ora di meno del 2% (fonti Fondo Monetario Internazionale). Questo perché? Per una serie di motivi, primo dei quali è che nessuno, tantomeno Putin, inizia una guerra senza aver preventivamente messo al riparo adeguate scorte finanziarie e di materie prime per condurla. Secondariamente c’è da considerare la resilienza delle economia in periodi anche lunghi di crisi. Si pensi infatti che l’anno migliore in termini di produzione per la Germania hitleriana non su il ’41, anno in cui la Wehrmacht conquistava l’Europa, ma il 1944 quando gli Alleati bombardavano l’intero paese giorno e di notte. Fatto sta che ad un anno dall’inizio del conflitto la Russia di Putin sembra essere ben lungi dalla catastrofe e dal collasso economico produttivo. Le fabbriche di armamenti come la UralVagonZavod producono oltre 50 nuovi T90M al mese, lo stesso la KB-Mashinostroyeniya continua a produrre i missili Iskander che periodicamente si abbattono sulle città ucraine.

Come è possibile? Innanzi tutto grazie ad un significativo livello di scorte accumulate negli anni precedenti il conflitto e ora attraverso il contrabbando, le triangolazioni, la vendita conto terzi e via così. Basti dare un’occhiata al traffico di TIR tra la Turchia e la Russia, come all’andirivieni di navi battenti bandiere di comodo messe a disposizione di compiacenti armatori occidentali per non parlare della nuova flotta di petroliere di cui si sta dotando la Russia per trasportare il proprio greggio. Si tratta di vere e proprie carrette del mare che però qualche società assicuratrice indiana è ancora disposta a coprire e per le quali qualche staterello non trova difficoltà ad iscrivere nel proprio registro navale. Vuol dire che le sanzioni non servono? Certamente no: servono a rendere più caro e lento l’approvvigionamento di prodotti essenziali e più difficoltoso commerciare i propri. Insomma servono ad aumentare i costi, non a fermare l’economia e tanto meno la guerra. Come si vede molte delle vite di giovani soldati oggi nelle trincee del Donbas passano anche, se non soprattutto, dalle piazze della finanza e dalle stanze dell’economia. Per dirla con Alberto Sordi in un indimenticabile film del 1974, “Finché c’è guerra c’è speranza”.

LEOPARD 2, ABRAMS e T90; TUTTI CONTRO TUTTI.

Non esistono situazioni disperate; solo uomini disperati”, così settanta anni fa ammoniva Heinz Guderian, uno dei padri delle moderne forze corazzate. Siamo dunque a questo punto? Forse no, anche se, trascorso ormai il primo anno di guerra, sulle pianure ucraine si proiettano nuove e preoccupanti ombre.

Heinz Guderian, uno dei padri delle forze corazzate tedesche.

A dissiparle non è bastata la decisione di inviare qualche moderno carro armato all’esausto esercito di Zelensky; come nel teatro anche in guerra è infatti tutta una questione di tempi. Per comprendere meglio cosa questo significhi  è dunque opportuno risalire proprio la linea del tempo a cominciare da quando, a metà settembre, le unità ucraine ripresero il controllo dell’intera regione di Kharkiv. In quei giorni l’esercito russo stava vivendo il momento di maggiore confusione e sbandamento da quando l’attacco iniziale a Kiev era fallito. Disordine, sgomento, abbattimento erano palesi tra le file dei coscritti di Putin così come tra i mercenari della Wagner o i ceceni di Kadirov.

il carro tedesco Leopard 2 (foto WEB)

Tra i primi a comprendere che quello poteva essere il momento giusto per la trattativa era stato il capo di stato maggiore della difesa USA, il generale Mark Milley. Allora, molto probabilmente con il benestare della Casa Bianca, il sessantacinquenne generale si era permesso di suggerire a Zelensky di iniziare a negoziare da una posizione di forza come quella raggiunta in estate piuttosto che attendere un’improbabile vittoria assoluta. A Kiev nessuno lo aveva ascoltato, così la guerra era andata avanti peraltro registrando  un nuovo importante successo per gli ucraini, vale a dire l’abbandono di Kherson da parte del presidio russo.

Il generale Mark Milley, capo degli stati maggiore congiunti USA (foto WEB)

In quei giorni di fine estate in molti avevano iniziato a pronosticare il rapido collasso dell’armata di Mosca e la conseguente fine della guerra. Tuttavia non altrettanti avevano preso nella dovuta considerazione alcuni fattori che nel tempo non avrebbero mancato di manifestare la propria rilevanza. Il primo era stata la dichiarazione, il 21 settembre 2022, dell’avvio in Russia della mobilitazione parziale di oltre 300.000 riservisti. Le televisioni e i blog occidentali di quei giorni si erano concentrati a mostrare giovani russi in fuga o altri catturati fuori dai bar come ad annunciare il fiasco di una simile, disperata iniziativa. Eppure qualcuno deve pur aver risposto alla chiamata visto che a novembre dello scorso anno erano stati incorporati oltre 250.000 nuovi soldati.

coscritti russi (foto WEB)

Non solo. I peggiori o i meno adatti erano stati subito spediti sulla linea del Donbas a tener duro; gli altri, i più svegli, gli specializzati o semplicemente quelli più fortunati erano stati sottoposti a un intenso programma di addestramento e ricondizionamento ancora in via di completamento nelle basi e nei poligoni russi e bielorussi.  Nel frattempo l’abbandono di Kherson, ordinato da “Armagheddon” come è simpaticamente soprannominato il nuovo comandante delle forze russe in Ucraina, generale Sergej Surovikin, aveva consentito di recuperare circa 30.000 uomini fino ad allora bloccati nell’inconcludente presidio di una città indifendibile. Del ritiro da Kherson si era avvantaggiata anche la sbilenca catena logistica russa nonché la linea del fronte, ridotta di un centinaio di chilometri. Nel frattempo mentre Medvedev e Putin minacciavano apocalittici attacchi con nuove e sconosciute potentissime armi, più prosaicamente parte dell’industria pesante russa si stava riconvertendo ai ritmi e alle necessità di una guerra su vasta scala.

militari russi nei pressi dell diga di Nova Kakovha – provincia di Kherson

Anche se rallentata da una serie di problemi organizzativi, dall’endemica corruzione degli apparatchik e solo in parte dalle sanzioni occidentali la macchia produttiva di guerra russa si era messa in moto iniziando a ripianare le immense perdite di mezzi e materiali patite nei primi mesi dell’operazione militare speciale. Sul campo, visto che sul terreno era d’obbligo una tenace difensiva, il Cremlino aveva avviato una potente e costante offensiva aerea condotta a colpi di missili e droni, che se pur ridotta in durezza e intensità non accenna ancora a placarsi. Obiettivo la rete energetica e dei trasporti allo scopo di impedire o rallentare ogni produzione bellica da parte di Kiev e fiaccare il morale della popolazione. Se il primo degli obiettivi sembra essere stato raggiunto per l’altro siamo ancora in alto mare. E’ sotto gli occhi di tutti di quanto gli ucraini, almeno quelli rimasti in patria, siano sempre più determinati a combattere questa che sempre più è vista come una guerra per la sopravvivenza stessa del paese. Ecco allora che torniamo al tempo. Nel periodo in cui l’esercito russo era palesemente più debole che cosa si è fatto? Sono state inviate altre batterie di HIMARS, qualche centinaio di obici, veicoli ruotati protetti e munizioni, tante munizioni oltre a mantenere una costante e capillare copertura di sorveglianza e intelligence sulle azioni dei russi. In apparenza dunque a Kiev non avrebbero avuto ragione di lamentarsi, ma allora perché Zelensky non ha perso occasione per chiedere altre armi e munizioni? E’ forse in preda a una furia distruttiva?

Se è vero che a caval donato non si guarda in bocca è altrettanto vero che il cavallo non è certo un purosangue. Ad un’occhiata più attenta si scoprirà infatti che nei mesi passati Kiev è stato rifornito di tutto quello che di ex-sovietico era possibile recuperare nei depositi della Polonia, in Ungheria e di tutti i paesi NATO un tempo ex-patto di Varsavia. Si era andati a scavare fino in Marocco e a Cipro alla ricerca di qualche T72, T64 o BMP ancora funzionante da poter gettare nella fornace ucraina. Con quei mezzi e con quelli abbandonati dai russi sul campo di battaglia l’esercito di Zelensky aveva fatto davvero miracoli, ma ora di mezzi del genere non se ne trovano quasi più e il tempo dei prodigi è tramontato.

T64 russo distrutto negli scontri dell’autunno scorso (foto WEB)

Non ci vuole certo un genio per comprendere come se una produzione bellica, quella russa, è in costante aumento e la situazione del parco armi e mezzi dell’Ucraina peggiora di giorno in giorno presto o tardi il divario sarà tale da consentire a Mosca di condurre un’offensiva decisiva. Anche la situazione del personale inizia a scricchiolare. Se nei primi mesi della guerra Kiev poteva infatti contare, oltre alla determinazione e al coraggio, anche su una preponderanza numerica di 2 a 1, ormai il rapporto si è parificato e presto verrà ribaltato a favore dei russi. Come mai? Ricordate la mobilitazione parziale che ci aveva strappato un sorriso? Si, proprio quella sta fornendo a Putin un esercito nuovo di zecca da affiancare o sovrapporre a quello che si sta consumando in Donbas. La situazione è peraltro così seria che lo stesso generale Valery Zalužnyj, da giugno a capo delle forze armate ucraine, ha auspicato un’ulteriore mobilitazione dei giovani ucraini per compensare le perdite sofferte in questi mesi mantenere un rapporto di forze ancora favorevole.

carro tedesco Leopard 2 in esercitazione

Siamo quindi giunti al tempo presente, quando gli Stati Uniti e tutti gli altri paesi che concorrono all’alleanza dei volenterosi a sostegno dell’Ucraina si sono decisi all’invio di moderni carri armati. Finalmente! Verrebbe da aggiungere e invece anche in questo caso c’è da dare un’occhiata più attenta a questa decisione e alle sue conseguenze. In primo luogo se è vero che si è deciso di inviare carri da combattimento moderni sul numero c’è da riflettere.  Zelensky e il suo stato maggiore sanno bene che per raggiungere qualche significativo ribaltamento di situazione dovrebbero disporre di almeno 500 o 600 carri e invece finora si è parlato si e no di un centinaio e neppure dello stesso tipo. Al riguardo la Gran Bretagna ha annunciato che invierà una quindicina di Challenger, la Germania un’altra quindicina di Leopard 2 ai quali si uniranno quelli di Polonia, Lituania e di molti altri stati. C’è infatti da precisare che a parte la Francia che è equipaggiata con il carro Leclerc, la Gran Bretagna con il già citato Challenger e noi con l’Ariete (sul quale è meglio sorvolare) tutto il resto d’Europa e molti altri paesi del mondo sono equipaggiati con il tedesco Leopard 2, un mastodonte di oltre 60 tonnellate, spinto da un motore da 1500 cavalli e armato con un cannone da 120 mm in grado di sparare in movimento. Del Leopard 2 la Rheinmetall di Dusseldorf ne ha prodotte svariate versioni a partire dall’originaria A1 fino alla più moderna A7. Per ciascuna di esse qualcosa sul carro è cambiato o è stato aggiunto. Significa che per ogni versione sarà necessaria una logistica dedicata, infatti non tutto quello che, ad esempio va bene per una versione A3 lo si monta anche su un A5. Oltretutto la Germania mantiene non solo il diritto ad autorizzare la cessione a un paese terzo di ogni Leopard 2 venduto a chicchessia, ma è anche l’unica in grado di effettuare grandi riparazioni e manutenzioni ultra-specialistiche su questo carro.

An M1A2 Abrams main battle tank from the Minnesota National Guard races through a breach in a barbed wire obstacle during the 116th eXportable Combat Training Exercise at the Orchard Combat Training Center, Idaho, Aug. 21. The XCTC is a program of record used by the Army National Guard since 2005 to train more than 11 combat and functional brigades. XCTC is a cost-efficient, time-efficient option for delivering combat readiness training to Soldiers at or near their home stations. This scalable live-training program has proven effective for pre-mobilization forces, in accordance with the Army Force Generation model. (U.S. Army photo by Sgt. Leon Cook, 20th Public Affairs Detachment)

La riluttanza di Berlino ad autorizzare l’invio dei “suoi” Lepard 2 in Ucraina è motivata però anche da altre ragioni. Ad esempio la Rheinmetall non sarebbe particolarmente felice di constatare che uno dei suoi carri è finito in mano russa per essere sottoposto a un minuzioso retro-engeneering. Cosa dire poi se alla prova del fuoco questo prodigioso (e costoso) mezzo si dimostrasse non all’altezza della sua fama? C’è da immaginare che le ripercussioni sul ristretto mercato mondiale delle armi sarebbero gravi. Non ultimo tra i dirigenti tedeschi si potrebbe essere insinuato il malevolo sospetto che una volta che i molti paesi europei ed extra-europei si decidessero a donare i loro Leopard 2 all’Ucraina gli stessi potrebbero essere tentati di rimpiazzarli non con altri Leopard 2 ma con i loro concorrenti americani, i carri Abrams o con qualche mezzo magari sud coreano. La Polonia d’altra parte l’ha già fatto. Per concludere  c’è da aggiungere la scarsa voglia da parte della Germania di inimicarsi ancor di più la Federazione russa con la quale da tempo mantiene rapporti commerciali e finanziari strettissimi.

carro T90 M russo (foto WEB)

Dunque qual è stata la soluzione? Proporre agli USA di subordinare la concessione delle necessarie autorizzazioni alla cessione dei Leopard 2 ad un analoga fornitura di carri Abrams e che comunque il numero dei carri cedibili non sarebbe potuto essere tale da pregiudicare le capacità di difesa dei vari offerenti. In altre parole darne pochi e darne tutti. A questo punto è stato Washington a storcere il naso per motivi in gran parte analoghi a quelli di Berlino. La soluzione americana è stata perciò di inviare un centinaio di Abrams da trarre però non dalle scorte strategiche dell’esercito ma direttamente dalla linea di produzione e c’è da scommettere che sulle pianure ucraine non vedremo certo l’ultimo modello di questo caro a stelle&strisce.

carro T90 M russo (foto WEB)

 In conclusione all’esercito ucraino, stando alle correnti decisioni, arriveranno un centinaio di carri o forse duecento, misti tra Challenger britannici, Leopard 2 di svariate versioni e qualche Abrams; tutto questo per la gioia di ogni responsabile logistico o capo officina che dovrà prepararsi a confrontarsi non uno svariato numero di catene logistiche diverse. Guardiamo per un’ultima volta al tempo per constatare che mentre tutto questo è ancora bel al di là dal realizzarsi, nelle retrovie del fronte del Donbass quasi quotidianamente si ha notizia dell’arrivo di convogli ferroviari che trasportano  T72B e T90 M revisionati o nuovi di fabbrica. Viene allora da chiedersi per quale ragione Mosca dovrebbe attendere l’arrivo dei nostri rinforzi per scatenare la sua ennesima offensiva. Forse per questo da parte USA e britannica si inizia a parlare di uan nuova offensiva russa e fine febbraio. Come al solito vedremo.

E’ ARRIVATO UN BASTIMENTO CARICO DI…

Mentre sul fronte la situazione sembra essersi fossilizzata, nelle retrovie e nelle fabbriche si gioca la partita del prossimo futuro.

Cosa accade quando il piano fallisce; quando le prospettive e le ipotesi della vigilia vengono sbriciolate dall’impatto con la realtà? Il dilemma in fondo è semplice: o si abbandona l’impresa o si va avanti. Entrambe le scelte aprono a orizzonti inesplorati e a conseguenze imprevedibili. Eravamo alla fine di febbraio dell’anno scorso quando Putin aveva dato il via libera a quella che con qualche ragione era stata definita “operazione militare speciale”.  L’intervento armato che in due settimane avrebbe dovuto condurre al collasso delle strutture governative ucraine, alla sostituzione della sua classe dirigente e al festoso rientro di Kiev tra le braccia della Grande Russia non poteva infatti definirsi una vera e propria guerra.

Come spesso accade le cose sono poi andate diversamente e da dieci mesi tra Federazione russa e Ucraina si combatte una guerra vera, con migliaia di morti, distruzioni imponenti di infrastrutture, crisi economiche mondiali e il coinvolgimento per ora quasi indiretto della principale potenza militare del pianeta. Lo stesso Putin, che si era affrettato a varare una legge per punire chi avesse scambiato la sua operazione per una guerra, oggi si lascia sfuggire in pubblico che di questo appunto si tratta. Cosa succede allora quando il piano iniziale va a farsi benedire ma si va avanti malgrado tutto? Si brancola nella nebbia dell’imprevisto, urtando una volta contro lo spigolo di una logistica impreparata, un’altra contro quello di soldati insufficienti, inciampando su comandi non coordinati, disomogenei e troppo sensibili agli umori dell’inquilino del Cremlino. Nel frattempo però il tempo passa e la nebbia si alza dando modo di intravedere il panorama con maggiore chiarezza.

il Presidente Vladymir Putin e, alle spalle, il ministro della difesa della Federazione Russa Sergej Shoigu (fonte WEB)

Nei dieci mesi passati l’Ucraina ha capito che una volta assorbito l’urto iniziale avrebbe dovuto far tesoro della confusione che agitava il campo russo e dei preziosi aiuti che ne frattempo l’Occidente, vale a dire gli Stati Uniti, stava profondendo senza risparmio. A Kiev si chiedeva solo di avere il coraggio di combattere senza paura il gigante che sempre più sembrava poggiare su piedi d’argilla. E i giovani soldati ucraini l’hanno fatto con un entusiasmo e una capacità combattiva che in pochi sospettavano solo l’inverno scorso. Tuttavia anche per Kiev l’impatto con la realtà di un nemico caparbio, disposto a grandi sacrifici pur di non mollare la presa ha iniziato a intaccato il sogno di vittoria che giorno dopo giorno assume gli evanescenti contorni di un miraggio o peggio di uno slogan. E’ infatti vero che a fine estate l’intera regione di Kharkiv è stata liberata e che i russi sono stati costretti a lasciare Kherson, il cosiddetto “balcone su Odessa”, ma è altrettanto innegabile che gran parte del Donbas è ancora in mano russa, così come il corridoio di terra che lo congiunge alla Crimea passando per Mariupol, Melitopol e Berdiansk.

soldati ucraini sulla linea del fronte (foto WEB)

L’autunno ha quindi presentato a entrambi i contendenti lo stesso scenario, quello di una guerra su vasta scala, dagli enormi consumi di uomini, mezzi e materiali che al momento si è arenata su una linea del fronte lunga poco più di 500 km che riporta alla mente le Fiandre del 1915. Come un secolo fa si pensa e spera che prima o poi verrà scatenata l’offensiva che permetterà di capire chi vince e chi perde, ma per ora si è di fronte a quella che von Falkenhayn nel 1916 aveva definito la “materialschlacht”; una battaglia di materiali.

I numeri della guerra sono infatti impressionanti, almeno se vengono letti alla luce di quell’illusione che per tre decenni ha cullato i sogni dei governi e degli stati maggiori del mondo occidentale e che andava sotto il nome di “missioni per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale”. Sulle pianure e nelle balke di Ucraina per dichiarare “mission accomplished” non bastano più qualche migliaio di blindati leggeri, un centinaio  di elicotteri multiruolo, qualche mortaio per autodifesa e un manipolo di forze speciali per i lavori sporchi. Qui ogni mese si macinano decine di migliaia di granate di artiglieria, centinaia di carri armati, tonnellate e tonnellate di carburante, montagne di pezzi di ricambio, centinaia di missili e di droni lasciando volutamente per ultimo il computo delle vittime che ormai hanno superato le decine di migliaia. Almeno nei numeri quella russo-ucraina non è un’operazione speciale; è la guerra che per ora si è allontanata dalle mappe dei tattici per appoggiarsi ai calcoli della logistica. Per ora non sembra che sarà un redivivo Napoleone a risolvere la faccenda quanto invece la capacità di una delle due parti di sopraffare l’altra in termini di armi, materiali e uomini. Iniziamo dunque da questi ultimi.

soldati ucraini (foto WEB)

Vi ricordate quando a settembre Putin aveva proclamato la mobilitazione parziale? In occidente l’iniziativa era stata presentata come una mossa disperata per mettere una pezza a colori su una campagna fino a quel momento fallimentare. Le immagini di centinaia di renitenti in fuga, di giovanotti catturati appena fuori dai bar come quelle dei coscritti ubriachi sui camion che li stavano conducendo al fronte avevano fatto il giro del mondo, almeno del nostro, dando l’illusione di una mossa del tutto inutile. Dopo qualche mese bisogna invece riconoscere che il provvedimento qualche effetto l’ha prodotto. In primo luogo ha consentito all’esercito di Mosca di contenere la controffensiva ucraina un Donbas e in secondo luogo ha dato il tempo di addestrare migliaia di nuovi soldati per la spedizione putiniana. Quanti? Da una stima generica si parla di circa 300.000 uomini che potrebbero affiancarsi a quanti da mesi si trovano al fronte, in pratica raddoppiando gli effettivi di Mosca.

Carro armato russo T90M (foto WEB)

E l’Ucraina come ha reagito? Stando alle parole di Valerij Fedorovyč Zalužnyj, il 49enne generale a capo della difesa ucraina, si potrebbe dire con maggiore realismo di quanto abbiano fatto molte cancellerie occidentali. Zalužnyj ha infatti esortato a non prendere sottogamba gli effetti prodotti nel medio e lungo termine dalla mobilitazione russa auspicando a breve un analogo provvedimento da parte di Kiev. Se infatti questa prima parte del conflitto ha visto l’Ucraina prevalere nel rapporto uomo-contro-uomo con Mosca, l’immissione di questa nuova imponente massa di personale porterebbe ad un suo rapido ribaltamento dei valori che passerebbero dall’1 a 1 attuale ad un possibile 3 a 1 per Mosca. In altri termini, per riequilibrare la bilancia, a Kiev serviranno presto nuove reclute addestrate ed equipaggiate da spedire in prima linea. Viene poi da chiedersi come un’eventuale nuova chiamata alle armi potrebbe essere presa da quei giovani ucraini che finora l’hanno scampata.

Caccia bombardiere russo SU 57 – negli ultimi due mesi ai reparti di volo ne sono stati consegnati circa 20 (foto WEB)

Soprattutto da quanti – e sono decine di migliaia – che per svariati motivi hanno trovato rifugio all’estero. Infine Si presenta infine un ulteriore aspetto che non può essere trascurato. Infine l’Occidente sarà ancora disposto ad accollarsi l’onere dell’ulteriore potenziamento dell’armata ucraina? A questo riguardo Mosca scommette che prima o poi ci stancheremo di aiutare Kiev e spingeremo il governo ucraino ad accettare una trattativa con l’aggressore, fatto che avrebbe il sapore di una resa. Per il momento in questa partita a poker con Mosca, Biden e la sua amministrazione continuano a rilanciare anche se a fatica. La guerra in Ucraina infatti costa a Washington miliardi di dollari e ne sta intaccando a fondo le scorte di materiali, armi e munizioni e anche se Biden ha dato prova di sostenere Zelensky senza “se” e senza “ma”, qualche voce in dissenso inizia a farsi sentire. Tra tutte quella di Mark Milley, capo di stato maggiore generale delle forze armate USA, che già nel novembre scorso invitata Kiev ad avviare trattative di pace ora che si trovava in posizione di relativo vantaggio, sottintendendo che questo momento felice non sarebbe durato per sempre. Finora l’invito è caduto inascoltato anche se ormai appare sempre più evidente che qualcosa è cambiato nell’economia della guerra e non si tratta di cose di poco conto. Se infatti è vero che Mosca ha finora dovuto incassare pesanti sconfitte e ingenti perdite è altrettanto vero che non è giunta al punto di rottura. Nel frattempo è invece riuscita in gran parte ad adeguare il proprio apparato industriale ai ritmi della guerra. Oggi dagli arsenali e dalle fabbriche russe escono migliaia di proiettili di artiglieria ogni giorno (si stima quasi 5 milioni di granate in un anno) e nuovi veicoli da combattimento stanno man mano prendendo il posto della vecchia ferraglia post guerra fredda che si era vista all’inizio.

Carro tedesco Leopard 2 (foto WEB)

I moderni carri T 90 M non sono più una fugace apparizione e convogli con decine e decine di questi carri giungono ogni giorno alle retrovie del fronte, lo stesso per altri materiali d’armamento. Anche l’impiego dei missili balistici non sembra risentire dell’embargo occidentale imposto dall’inizio della guerra, per non parlare dei droni acquistati in Iran per qualche migliaio di dollari l’uno. Il divario è anche maggiore se si guarda all’aeronautica dove Mosca dispone di velivoli che per numero e avionica surclassano la malandata aeronautica di Kiev. Ecco cosa serve oggi a Kiev: carri armati moderni, aerei da combattimento e munizionamento d’artiglieria, peccato che tutti o quasi i governi occidentali sembrano finora restii ad equipaggiare Zelensky con il meglio del loro arsenale. Nei mesi scorsi per equipaggiare le unità corazzate ucraine si è provveduto a rastrellare ogni T64, T80 e T72 ancora disponibile nelle caserme polacche, ungheresi, slovacche e addirittura cipriote.

Carro T84 OPLOT ucraino (foto WEB)

A questi si sono aggiunti quelli catturati o abbandonati in gran numero a Kharkiv, Kherson e in altre zone del fronte, ma ormai quel pozzo si sta prosciugando, come in via di esaurimento sono le scorte di parti di ricambio e i materiali per le manutenzioni. Certo, nei mesi scorsi l’Occidente ha fornito anche materiali di pregio come il sistema missilistico HIMARS o gli obici leggeri M777 o ultimo il sistema antimissile PATRIOT, ma il resto è rappresentato ancora da blindati, qualche pezzo controaereo o vecchi arnesi anni ottanta e novanta non in grado di reggere il confronto con una nuova generazione di armi russe. In questo clima non si può certo chiedere all’industria ucraina di colmare il divario, anche se qualche T84 OPLOT esce ancora dalle fabbriche malgrado la fornitura a singhiozzo di elettricità, ma è impensabile che senza un intervento deciso degli americani e di noi europei la situazione possa risolversi. Per ora il primo a pronunciarsi è stato il cancelliere tedesco Olaf Scholz che ha chiarito di non aver alcuna intensione di rifornire di moderni Leopard 2 l’arsenale di Kiev. Biden per ora non si è pronunciato ma si sa di forti resistenze nel concedere robuste forniture di carri M1A2Abrams o di M60A3. Sarebbero invece disponibili a concedere veicoli da combattimento per la fanteria IFV M2 Bradley, ma non è quello che serve davvero.

C’è infine da riflettere su quale incubo organizzativo possa essere il mantenere, riparare e tenere in efficienza mezzi così tanto diversi con catene logistiche tra loro incompatibili. Ad oggi la maggior parte delle riparazioni e delle manutenzioni più importanti devono essere svolte fuori dall’Ucraina con ovvie conseguenze sulla capacità operativa dei reparti. Tutto ciò vuol dire che l’Ucraina è destinata a perdere la guerra? Certamente no, ma è innegabile considerare come si sia giunti ad un momento importante della campagna dove il solo coraggio e il solo morale potrebbe non bastare più. Occorre che USA e altri Paesi riflettano e decidano alla svelta se e quanto rilanciare. Per ora a noi non resta che seguire gli eventi e attendere.