L’UNDICESIMA ORA

in questi giorni di guerra ho ritrovato un breve racconto che avevo scritto tempo fa. Parla di come finisce una guerra, o almeno di come è finita quella del 14-18… all’undicesima ora, dell’undicesimo giorno, dell’undicesimo mese.

Verdun -Francia (foto p.Capitini)

Titic-tic…tic…”

Nel vagone di 2a classe ora adibito ad ufficio, due giovani dattilografi attendono come pulcini nel nido che l’ufficiale capoturno – un anziano colonnello di fanteria – depositi loro nel becco le parole del documento. Fuori ha ripreso a piovere; solo la linea degli alberi accenna il confine tra la terra di guerra e il cielo di novembre, grigio come la ghisa.

Foglio 13, paragrafo XXXIV… “La durata dell’armistizio è fissata in 36 giorni con facoltà di essere prolungato…”. L’Ufficiale scandisce ogni sillaba con un accento della Dordogna che si arrampica vittorioso su quel francese burocratico.

Tic- tic- tic…”

Il treno l’aveva voluto il maresciallo Foch, il comandante supremo degli eserciti alleati in Francia. Con quello si spostava avanti e indietro alle spalle di un fronte lungo più di 800 chilometri e comandava. Comandava a milioni di uomini di uscire dalle loro trincee e iniziare a correre fino a quelle tedesche. Poche centinaia di metri, a volte solo decine, poi la mitragliatrice li avrebbe falciati come grano in giugno. La Somme, Verdun, Le Chemin de Dammes, Ypres…erano i nomi di questa immensa mietitura di uomini. Ora il treno è fermo nella foresta di Compiegne, non lontano dalla stazione di Rethondes. Sull’altro binario, a neppure cento metri è fermo un altro treno, quello della delegazione tedesca che dovrà firmare quei fogli che finalmente metteranno fine a quel raccolto.

Arras – Le Gallerie Wellington (foto p.Capitini)

Il treno di Foch, come lo chiamano tutti, si compone di una carrozza ristorante, la n. 2418 D per l’esattezza, una carrozza letti, la n. 1888, e la carrozza salone n. 2443. Ad esse sono stati aggiunti altri due vagoni bagagli per le scorte e materiali vari.

Agli inizi di ottobre del ’18 il ministero della guerra aveva ordinato al Direttore della Compagnia dei Vagoni Letto di allestire ad ufficio una vettura ristorante a due sale: nella sala più grande, quella di 1a classe, avrebbe dovuto lasciare due tavoli da quattro posti e uno più grande tavolo sul quale poter aprire mappe e carte; nella sala più piccola, quella di 2a , avrebbero sistemato due tavoli-scrittoio e qualche sedie; infine nella vecchia cucina i fornelli sarebbero stati sostituiti da tre tavoli per le macchine da scrivere. Era da lì che veniva quel ticchettare che il mondo attende da quasi cinque anni. Per i dattilografi chini sulle loro “Contin de luxe – Paris” quelli sono i fogli più importanti della loro vita. Non ci possono essere errori. Nessuna correzione, nessun graffio di gomma.

foto p.Capitini

Perfetto!” il colonnello dall’isopprimibile accento di Dordogna preme sui fogli i timbri previsti, li registra nel protocollo della posta in uscita e infine li sistema ciascuno in una cartella di cartone rigido color fango. Tre grappette tengono ferme le parole che separano la vita dalla morte. Gettato un ultimo sguardo s’incammina rapido verso la carrozza 2419D. Lo stanno aspettando.

Tieni. Mettili alla firma e facciamola finita”. Dice porgendo le cartelle al giovane tenente della coloniale incaricato di sistemare il tavolo. Avrà si e no vent’anni e non riesce a celare un sorriso. Suo fratello Jaques è ancora in qualche buca fangosa dalle parti di Saint Omer. Spera sia ancora vivo.

Verdun – Francia (foto p.Capitini)

“… Il presente armistizio è stato firmato l’11 novembre 1918 alle ore…”. Il colonnello alza gli occhi verso orologio a muro, è sempre andato avanti di tre minuti, un rapido calcolo e completa a penna “…5 (cinque), ora francese”.

Sul fronte occidentale, nelle trincee, nei ricoveri pieni di pidocchi, nelle postazioni di vedetta riempite di fango il cessate il fuoco entrerà dunque in vigore quel giorno stesso: all’undicesima ora dell’undicesimo giorno dell’undicesimo mese dell’anno.

Fuori fa freddo. E’ l’inizio dell’inverno, il quarto di guerra; 1560 giorni trascorsi da milioni di uomini nell’angoscia di non sapere se quello che hai appena fatto sarà il tuo ultimo respiro.

Sulla foresta di Compiegne, a qualche chilometro dalla stazioncina di Rethondes, i primi raggi di un sole gelido filtrano dai vetri della vettura 2419 D. Alle cinque della mattina dell’11 novembre la delegazione tedesca ha firmato quei fogli. I plenipotenziari tedeschi erano quindi scesi dalla carrozza incamminandos verso il loro treno che li avrebbe riportati…non sapevano neppure loro dove. A Berlino nessuno rispondeva più al telefono. Per quel che ne sapevano, la Germania poteva già non esistere più.

Anche sulle Ardenne fa un gran freddo ma Augustin ride. Ride e vorrebbe saltare, urlare, ballare. Dal comando di battaglione hanno comunicato che la guerra è finita e lui sta correndo in linea per avvertire che alle 11,30 ci sarà minestra calda per tutti. E vino. Vino per tutti. Augustin attraversa le case distrutte di Vrigne sur Meuse, passa la ferrovia che collega Sedan a Charleville o quel che ne resta. Guarda l’orologio, manca meno di mezz’ora alla fine della guerra e ride. Non lo sente neppure arrivare. Un proiettile Spitzer calibro 7.92 lo prende in piena fronte.

Ypres – il museo (foto p.Capitini)

George Lawrence ha 26 anni e non è mai stato in Europa, a dire il vero non è mai stato da nessuna parte oltre i campi di casa sua. Del Belgio conosce solo il canale di fronte a lui e un ponticello semi diroccato. Per lui Mons non è una città, ma solo macerie, terra smossa e odore di morte. Niente a che vedere con l’aria pulita e odorosa di alberi del Canada. Prima di quella pazzia collettiva faceva il contadino in Nuova Scozia e adesso è soldato semplice nel 28° battaglione fanteria canadese, matricola 256295. Non una grande carriera. Quel giorno è un lunedì e a lui è toccato di andare di pattuglia verso il canale, in rue de Mons…hanno detto che la guerra è finita, ma è meglio stare attenti, lì è pieno di crucchi.

Neppure lui sente arrivare il suo proiettile.

Augustin Trébuchon dalla Francia, George Lawrence Price dal Canada; Henry Gunther dagli Stati Uniti: George Edwin Ellison del 5° Royal Irish Lancers e altri 2738 uomini moriranno nell’ultimo giorno di guerra senza vedere l’undicesima ora, dell’undicesimo giorno, dell’undicesimo mese.

Per tutti gli altri la guerra è finita.

…e il conto?

Ma tu stavolta ci vai a votare?”. Già il fatto che una domanda del genere ti venga posta la dice lunga sull’aria che tira in quest’inizio di settembre elettorale.

Andare o non andare a votare, e nel caso per chi?” Ogni volta che l’argomento esce fuori si rianimano Matteotti, i martiri della Resistenza, quelli uccisi dalle Brigate Rosse e tutti gli italiani che negli anni hanno dato la vita perché io potessi liberamente andare a votare. Stanno tutti lì, in bianco e nero, con la faccia incazzata e mi guardano aspettando che dica: “Mi sa che io stavolta non vado!” per farmi sentire come il bimbo che fa piangere la mamma. La mozione degli affetti non dovrebbe essere arma elettorale.

Tentiamo un’altra strada: “Bisogna andare a votare perché se no vincono gli altri”. E chi sarebbero poi gli Altri? Quelli che la pensano diversamente da me? Quelli che rubano? Quelli che non sanno mettere due parole in croce? Oppure quelli che pur sapendolo fare non hanno alcuna idea di cosa dire? Purtroppo il timore di far vincere gli Altri non mi permette per differenza di riconoscere i Miei. Chi sarebbero infatti i miei? Faccio un rapido giro tra visi e panze ma non riconosco nessuno. C’è quello che mi voleva curare con tachipirina&vigile attesa, quello che ha scelto il commissario che s’è inventato le primule e intascato i soldi. C’è pure quello del monopattino inseguito da quella con i banchi a rotelle e poi, quasi nascosto, chi con la bandiera ci si puliva il culo e anche quell’altro che ancora promette un nuovo miracolo italiano. Sarebbe già un miracolo sopravvivere. No, non riconosco nessuno come “i miei“.

Il calcio s’è inventato il prestito con diritto o obbligo di riscatto ma neppure così i nominati in pectore sono miei. Già perché, visto che si fidano così tanto, hanno deciso – tutti, nessuno escluso – che io debba votare solo un simbolo. I nomi, quelli che in teoria dovrebbero rappresentarmi, ce li mettono loro. Che carini! Certo, ad alcuni di quelli non affiderei neppure il sacchetto dell’indifferenziato che qui ritirano il giovedì, ma è solo perché sono malfidato e vecchio. Però a pensarci sono oltre dieci anni che questa legge elettorale, che essi stessi definiscono di merda, è ancora lì. Vigliacco ci fosse stato uno che c’avesse mai messo mano. Forse perchè, essendo di merda, fa un po’ schifo a tutti.

Come una zanzara di notte mi ronza fastidioso il consiglio: “Vota il meno peggio” oppure “Vota turandoti il naso”. Sul valore del voto in apnea discuterò un’altra volta, ma ora mi chiedo perché dovrei per forza scegliere tra due mali; uno supposto minore dell’altro, ma pur sempre un male. Ogni tanto, giusto per provare, non si potrebbe scegliere tra il Bene e il Male? Tra i Ladri e gli Onesti? Tra il Giusto e l’Ingiusto? No, eh… “.

A questo punto al bar della piazza dove fanno un grandioso gelato alle creme trovo quasi sempre Catone il Censore che mi intima: ”…se non voti non hai diritto poi di parlare e neppure di lamentarti!”. “Quindi – penso – chi non vota perché ammalato, perché minorenne, perché all’estero per lavoro, perché è in viaggio proprio quel giorno, per i prossimi cinque anni è condannato al silenzio? Al trappismo politico? Una interpretazione un po’ bislacca della cittadinanza, n’est pas?!

Quello che vota il parlamento diventa legge per tutti, non solo per chi ha votato e tutti hanno diritto di critica e di parola visto che la legge bussa ad ogni casa e, come recita l’adagio, “non ammette ignoranza”, significando forse che andrebbe trattata con più gentilezza. Anzi, adesso che ci penso, si possono anche raccogliere firme per cancellarla, una legge, e lo possono fare tutti, mica solo quelli che hanno votato. Argomentazione scarsa dunque.

Proviamo allora con “Non guardare ai politici, ma guarda al programma”. Una volta chiesero a Gandhi cosa ne pensasse della civiltà occidentale. “Sarebbe un’ottima idea” aveva risposto il Mahatma e anche per i programmi elettorali si potrebbe dire lo stesso.

Buona idea se ne avessero uno, anche di seconda mano, anche stortignaccolo, ma niente. Non c’è uno straccio di documento che riporti una mezza idea di come arrivare vivi al 2027. Niente. Certo, le letterine a Babbo Natale abbondano. C’è chi vuole affondare i migranti, chi regalare stipendi a fine anno, chi l’ecologia, chi il nucleare e anche chi vuole il parmigiano sugli spaghetti alle vongole. Io, ad esempio, vorrei perdere cinque chili entro cinque mesi, ma non penso che sia materia per un’elezione. Siamo quindi giunti al momento in cui ti dicono: “ma se non voti poi arrivano…” elenco nell’ordine: i comunisti, i fascisti, i democristiani, i pro-vax; i no-vax, i boh-vax, Putin con tutti i Russi, Biden con tutti gli Americani, i Tedeschi perché già sanno la strada; i Francesi che si comprano tutto, i Polacchi che ci portano un altro Papa dei loro e così via. L’avesse mai predetto Mosé al Faraone, questi avrebbe preferito di certo le classiche piaghe. Rane comprese. Malgrado le previsioni da menagramo non immagino che il non andare a votare potrebbe determinare il crollo della civiltà occidentale (a dispetto di Gandhi, ne abbiamo una), la fine del cristianesimo, l’arrivo dell’anti-Cristo e la ripresa della deriva dei continenti. E visto che in fondo un minimo di ottimismo m’è rimasto potrei anche correre il rischio di non votare e vedere se davvero un meteorite mi prende in piena fronte.

Resta infine l’ecumenico “Vai a votare anche se, voti o non voti, non cambia niente”. Vero. E proprio perché il mio singolo voto non cambierà mai una cippa di niente almeno lasciatemi assegnare al gesto un minimo valore morale e ideale; foss’altro solo per me. Guardo di nuovo verso i visi e le panze di anzi citate e di morale e ideale non scorgo alcunché.

immagine WEB

Il 25 settembre comunque si avvicina e sempre più distinta si va formando in me un’immagine, quella di un grande ristorante, di quelli a tre stelle Michelin, dove un uovo al tegamino costa come un metro quadro in piazza di Spagna. Seduti ai tavoli con doppia tovaglia di Fiandra vedo tutti i politici che in questi anni mai si sono alzati da lì, neppure per andare al bagno. Stanno seduti e parlano, parlano. Ogni tanto ordinano altro champagne e due spaghetti alla magnòsa, tanto per gradire.

Poi in sala ci sono i camerieri. Hanno tutti la mia faccia e corrono, corrono portando questo e quello. Alla fine, dopo il caffè e la grappa, i visi e le panze si girano tutti verso di me e mi consegnano il conto. Solo contanti, no bancomat!

Se andrò a votare? Vorrei tanto fumarmi una sigaretta seduto fuori dal ristorante, anzi lontano; lontanissimo. Vedremo.

Buona cena a tutti.

P.S. Se comunque la gente si chiede se andare a votare o no vuol dire che una bella figura in questi anni non l’avete fatta.

In ricordo di suor Luisa Dell’Orto.

Rue de Delmas è un stradone lungo e sudicio che dal porto sale su, fino alle colline degli uomini, dove esistono case e gente normale; prima, a destra e sinistra, trovi solo disperati.

Comment était le tremblement de terre ? Dites-le-moi” avevo chiesto a un vecchio fuori da un mercato. Guardava il mare e fumava seduto su una cassa vuota di “prestige”, la birra di Haiti.

Port-au-Prince – Haiti – il porto (foto p.Capitini)

Oh, paron” – mi aveva risposto sorpreso che qualcuno, un bianco, glielo chiedesse – “un énorme serpent qui est sorti de la mer et montait le long de la rue”. Il serpente uscito dal mare era strisciato sotto la Delmas e aveva distrutto tutto. Due cose non aveva toccato: la speranza nel futuro e la fede in Dio Padre Onnipotente. La prima se ne era andata da tempo, forse di là dal mare, a Santo Domingo o in Florida. Circa la fede chi altro potevano pregare se non quel dio che ogni anno li uccideva a centinaia.

Port-Au-Prince, Haiti (foto p.Capitini)

Doveva essere di certo un dio bianco quello del colera, degli uragani, dei terremoti e della fame; ecco perché se ne erano inventati uno negro. Un Dio Negro che aveva creato un Gesù Negro, figlio di una Madonna Negra. Ad Haiti non ci sono i Neri, quelli dei diritti civili e del politically correct; quelli che come Martin Luther King avevano un sogno. Sono rimasti i Negri, povera gente senza sogni strappata dall’Africa, piegata dalla frusta e infine abbandonata su un’isola dall’altra parte dell’Atlantico.

Haiti, Port-au-Prince – il mercato della frutta (foto p.Capitini)

Ero capitato ad Haiti Port-au-Prince poche ore dopo il passaggio del serpente. Sotto le macerie si diceva ci fossero 230.000 morti. Alcuni, i più fortunati, erano entrati subito in quel numero; altri – molti, molti altri – c’avrebbero messo giorni a morire, imprigionati tra le macerie di una città polverizzata.

Nessuno scavava. Chi era vivo sopravviveva rovistando tra le macerie in cerca di qualcosa di utile: una lamiera; un catino di plastica; qualche mattone di cemento. I morti ormai avevano raggiunto Papa Ghede, lo spirito che governa l’oltretomba. Su tutta la città ristagnava un borotalco di polvere bianca che tratteneva l’odore dei cadaveri e della immondizia in decomposizione. Anche a dicembre il sole dei Caraibi sa essere crudele. Negli spiazzi tendopoli cenciose tirate su con sacchi di plastica blu e qualche pezzo di lamiera. Ovunque cartelli mal scritti: “AIDEZ-NOUS”.

Haiti- Port au Prince (foto p.Capitini)

Suor Luisa era una di quelle che aveva deciso di aiutarli molto prima che il terremoto ricordasse al mondo l’esistenza di questo pezzo di disperazione. Era una religiosa, magra come un chiodo, con due gambette fine, fine che terminavano in due piedi infilati in ciabatte da un dollaro. Vestiva sempre di un blu carta-zucchero e non portava il velo. Solo la Croce.

Haiti – Port-au-Prince – Suor Luisa Dell’Orto (foto p.Capitini)

L’avevo conosciuta perché qualcuno, forse all’ufficio dell’ONU, forse all’arcivescovato ci aveva avvertiti che la scuola che gestiva era stata spianata. A quel tempo l’Italia aveva mandato una portaerei e un battaglione del genio per dare una mano. La portaerei serviva a pochino, ma il battaglione del genio era come la manna dal cielo. Naturalmente il solerte stato maggiore aveva spedito in quella missione un battaglione del genio alpino dotato di ruspe gommate. Alpini su ruote ai caraibi in un posto ingombro di macerie. Geniale. Tuttavia l’animo del soldato italiano è più intelligente e pratico di qualsiasi generale romano e questi ragazzoni meridionali, spediti in Friuli, si spaccavano la schiena per tutto il giorno, pronti a ricominciare il giorno dopo. Dopo un po’ la polvere copriva le divise e non riconoscevi più i genieri dai vigili del fuoco, altra nobile razza di italiani. A guardarli mi sentivo a disagio a non avere anche io un piccone in mano.

Haiti – port au Prince – scuola dei Salesiani – Vigile del Fuoco (foto p.Capitini)

Non so chi aveva scoperto la strada fino alla scuola di Suon Luisa, una traversa di una traversa, di un vicolo che tagliava un fosso tra rue Delmas e Cité Okay. L’edificio era collassato per metà e nell’altra metà una torma di bambini dai 5 agli 8 anni continuava a fare lezione. Le bambine avevano treccine e fiocchi in testa, i bimbi una camicina pulita. C’era ordine e speranza tra quelle mura.

Ricordo che m’ero messo a sedere per terra e dopo pochi secondi, preceduti dalle risatine di coraggio dei bambini, m’ero ritrovato addosso decine di manine nere. Toccavano i capelli e ridevano. Toccavano, scappavano poi toccavano ancora e ridevano. “Touche ! On dirait le poil d’un chat” Doveva sembrare davvero buffo un uomo dai capelli bianchi e lisci come il pelo di un gatto in un mondo di teste nere e ricce.

Port – au- Prince -HAITI (foto p.Capitini)

Lavorammo per qualche giorno a sgomberare la scuola di suor Luisa, l’aveva chiamata “Kay Chal” ma tutti la conoscevano come “Maison Charles”. Questa donna bergamasca, cocciuta come la sua gente, aveva deciso di contendere la vita di quei bambini alla miseria e alla violenza. Non sempre vinceva, ma guardando quegli occhi vispi si capiva che a lei interessava non la vittoria ma la lotta. Si deve essere dei pazzi visionari per guardare quell’angolo del mondo e pensare di poter fare qualcosa. Suor Luisa, suor Anna come anche Fiammetta e molti altri avevano trovato il modo di non scoraggiarsi: guardavano agli occhi e al cuore della gente. Gli stessi cuori e gli stessi occhi guardavano loro e insieme si dicevano “siamo noi, siamo l’umanità”. Un’umanità senza aggettivi, né bella, né brutta, né ricca, né povera. Solo umana.

A me che venivo da Roma via XX settembre non riusciva subito questa magia di vita. Non mi riusciva neppure di raccontarla e invidiavo tanto giornalisti come Barbara, Lucia, Antonella e Domizia che trovavano le parole o gli scatti e i volontari come Rosa e Annalisa e la dottoressa Monica che sapevano dove mettere le mani. La sera quando rientravamo al campo mi sentivo di non aver fatto niente.

foto p.Capitini

L’altro giorno accendo la TV e mi dicono che suor Luisa è stata uccisa. L’hanno ammazzata non lontano da rue de Delmas e dalla sua scuola, forse per soldi, forse per fame, forse perché ad Haiti si muore e basta. Io quella donna l’ho conosciuta e ho visto cosa è riuscita a fare. Sono loro le persone che ti rimangono dentro e che quando le ricordi ti chiedono: “e tu cosa fai?

Io adesso ho trovato le parole per ricordarla. Non credo basterà.