La prima volta che arrivai a Milano era una mattina di settembre, fresca e umida. Troppo per me che una settimana prima me ne stavo a Napoli, Monte di Dio. Sulla spallina ancora due stellette da tenente dei bersaglieri; quella da capitano l’avrei trovata nella nuova sede, a metà di viale Giovanni Suzzani, al civico 125. Caserma Mameli.
Milano – Arena Civica … Celebrazione del 18 giugno – anniversario fondazione del Corpo dei Bersaglieri.
La macchina me l’avevano rubata pochi giorni prima, a Napoli, in via Mezzocannone: una golf diesel bianca con tettuccio apribile. Solo un cretino marchigiano come me l’avrebbe parcheggiata in via Mezzocannone per tutta la notte, ma a 26 anni si ha diritto ad essere cretini e geniali con generica propensione verso il primo. Così me ne stavo in stazione centrale, alla fermata della 42, aspettando il bus per il 18° battaglione bersaglieri. Gli avevano trovato un posto in una vecchia caserma del tempo della guerra, un tempo in estrema periferia; alle spalle del vecchio tabacchificio e poco lontano dall’ospedale Niguarda, nomi e luoghi sconosciuti.
Milano mi aveva fatto una impressione sconcertante e vagamente estera. Non aveva la compassata alterigia affumicata di Torino dove avevo frequentato la scuola e neppure la banalità ordinata e paludosa di Novara. Milano, come cantava Lucio Dalla “fa una domanda in tedesco e ti risponde in siciliano”. L’anno precedente l’avevo trascorso a Napoli. Dalla finestra dell’alloggio, giusto a fianco all’infermeria, si vedeva Capri e il cielo. Mi colpì il fatto che Milano non avesse cielo. Al suo posto il padreterno aveva rovesciato un bicchiere di orzata lattiginosa nel quale nessuno avrebbe mai sospettato galleggiassero le nuvole. Milano non aveva neppure il mare, né un bosco e neppure uno straccio di collina. Era il frattale dello stesso incrocio contornato da identici palazzi, con l’edicola all’inizio, le fermate dei mezzi e all’ingresso gli stessi 4 cartelli : “COMO”, “TORINO”, “SEMPIONE” e “GENOVA”. Perdersi a Milano non era difficile, ma inevitabile.
Potrei proseguire nella lista dei difetti che man mano trovavo a questa città, davvero brutta, tuttavia c’era qualcosa nell’aria e nella sua gente che te la rendeva all’inizio curiosa e poi addirittura simpatica. Forse la consapevolezza che i milanesi avevano maturato di vivere in una brutta città e nello stesso tempo saperci ridere su. Dopo un po’ capii che avevano sostituito l’estetica con la pratica e il tutto funzionava benissimo.
Comprai casa. Non proprio a Milano perché anche allora i prezzi per uno statale imponevano la rapina in banca, ma a Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d’Italia”. Cinisello, Bresso, Sesto San Giovanni, Affori…tanti modi di chiamare la stessa città, metodo un po’ classista ma almeno a prezzi più popolari. A Roma anche chi abita in un piano terra a Osteria Nuova può dire “So’ dde Roma”; a Milano a metà di viale Sarca sei già a Berlino Est.
Deve esserci qualcosa nell’aria oppure secoli fa i milanesi avranno subito qualche affronto imperdonabile per mantenere quest’aria schifata e snob nei confronti di chi li circonda. Vai a saperlo.
Giuseppe Sala, Sindaco di Milano e della città metropolitana.
Anche il dottor, grandlupman, dirigente d’azienda e dirigente pubblico, sindaco di Milano e dell’omonima città metropolitana Giuseppe Sala detto Beppe dagli amici deve essere uno così, una sorta di martini dry della politica: un terzo di snob, un terzo di talebano di sinistra e un terzo di coglionaggine. Olivetta a piacere. Per salvare Milano dall’inquinamento, garantirle la svolta verde, allinearla all’Europa, lanciarla nel terzo millennio e mille altre magnifiche sorti e progressive si è barricato all’interno dei limiti del comune, cosa che da quelle parti non si vedeva più dai tempi di Federico Barbarossa.
Cosa è successo? Semplice. Dagli inizi di ottobre non solo se hai un veicolo euro 3 o 4, ma anche euro 5 o 6 non pensare neppure di avvicinarti alla città. Anche se una marmitta euro 6 puoi usarla al posto dell’aerosol a Giuseppe Sala detto Beppe dagli amici non importa una cippa. Comprati un’auto elettrica, impara ad andare in monopatino, tira fuori la bicicletta dal garage o, se ce la fai, prendi un taxi, ma non t’azzardare a salire in macchina. Questo l’ecologico invito di Giuseppe Sala detto Beppe dagli amici.
L’ostracismo vale anche per l’idraulico con il suo Fiorino, per la squadra di muratori bergamaschi pressata dentro l’IVECO Daily rigorosamente bianco, rigorosamente ammaccato e anche per il Mercedes che scarica il pane al supermercato. Sala guarda tutti e non vuole nessuno.
foto WEB
Più per desiderio di rivedere vecchi amici che per reale necessità a giorni avrei avuto motivo di tornare a Milano, una città che amo e dove ritornavo sempre con grande piacere. Tuttavia mi trovo a considerare che una settimana potrebbe non essermi sufficiente per imparare ad usare il monopattino. A 60 anni compiuti e per giunta in giacca e cravatta mi sentirei un po’ cretino a traballare la sopra. Potrebbe anche dipendere dalla mia inadeguatezza meridionale nel sentirmi affascinato dalle nibelungiche trovate di quest’illuminata giunta. Sto quindi meditando di rimandare l’impegno oppure, a malincuore, disdirlo per “impraticabilità di campo”.
Di certo Giuseppe Sala detto Beppe dagli amici sarà soddisfatto. A me rimane la sorpresa di vedere gente che sapevo ragionevole, pratica e anche combattiva essere stata completamente anestetizzata da questa fantastica e visionaria giunta comunale la quale tiene così tanto alla qualità dell’aria che è disposta a farti licenziare o fallire per difenderla. Penso che me ne resterò quindi nel mio paesino dell’Alto Lazio dove si parla un italiano post-medioevale, in piazza ogni tanto ci trovi i cavalli e il nostro sindaco non ha velleità di passare alla storia.
Bene così Giuseppe Sala detto Beppe dagli amici, tra i quali non ci sono certo io.
“Patria. Bandiera. Parole polverose e senza senso…” il commento era uscito, senza alcuna cattiveria, da una elegante e anziana signora; una grande scrittrice, figlia di una grande famiglia. Insomma una persona di rispetto. Si parlava di elezioni e di pericolo nero, di Italia non più europea e di altri temi di certo importanti, eppure di tutte le intelligenti parole e dei profondi concetti che avevo ascoltato solo quella frase, buttata là con un tono di vago disgusto, m’era entrata dentro con fastidio, quasi con dolore.
foto P.Capitini
Qualche giorno prima avevo ricevuto l’invito alla cerimonia del cambio del comandante del mio vecchio reggimento. Per chi non fosse pratico di cose militari un reggimento è una comunità di un migliaio di soldati con a capo un colonnello. Di solito resta al comando un paio d’anni poi viene trasferito lasciando il posto a un altro e per sottolineare il passaggio, come prescrive il regolamento militare, si organizza una “sobria ma significativa” cerimonia. Era appunto a una di queste sobrie e significative cerimonie che ero stato invitato, quella del comandante dell’Ottavo bersaglieri. Noi lo scriviamo così – Ottavo – con la “O” maiuscola e per esteso, senza usare numeri. La ragione è un po’ lunga da spiegare, ma, fidatevi, ne abbiamo motivo.
foto P.Capitini
A suo tempo anche io ne avevo organizzata una. Da Reggio Emilia era venuta mia sorella e qualche amico. Anche allora era settembre e intuivo che gli anni a venire non avrebbero mai più avuto lo stesso calore, la stessa idea di famiglia di quelli che stavo lasciando.
Da quel giorno di settembre, quando mia sorella mi aveva visto con il cappello piumato, la sciabola e la sciarpa azzurra, erano passati diciotto anni. Finita la cerimonia eravamo usciti dalla caserma con la mercedessport coupécomprata dal tenente Zizzari. Da allora non avevo più messo piede tra quelle mura. Nello stesso cortile molte altre cerimonie avevano continuato a salutare nomi e volti dapprima a me familiari, poi sempre più giovani e sconosciuti. Fino ad oggi: 23 settembre 2022.
foto P.Capitini
Nei giorni incerti tra la fine dell’estate e i primi respiri freschi d’autunno, in giro per la strada c’era poca speranza e molta rassegnazione. Tra due giorni si sarebbe votato. In TV passava uno spot per invogliare la gente ad andare ai seggi.
Brutto segno.
Tra Russia e Ucraina era in corso una guerra estranea che presto ci avrebbe reso tutti più poveri. Anzi, quasi tutti. Qualcuno con amicizie più importanti e un conto in banca solido se la sarebbe cavata, lasciando alla gente il compito di rosicchiare l’osso della crisi. E questo la gente lo avvertiva chiaramente.
Brutto segno.
Dopo la fine della pandemia, malgrado le promesse, non c’era stata alcuna resurrezione. Personalmente continuavo a sentirmi avvolto da questo mal bianco; dal senso di rancorosa sconfitta che si respirava per le strade delle nostre città e persino nei bar del mio paese dove in questi giorni si sarebbe parlato di vendemmia, di corna e di caccia. Anche la Juventus giocava male.
Brutto segno.
Non tirava dunque una bella aria. Per di più c’erano le parole della grande e importante scrittrice che spolveravano di modernità questi giorni rassegnati.
foto P.Capitini
Contro ogni ragione mi ritrovavo comunque di buon mattino a scendere verso le porte del sud. E’ là che il mio vecchio reggimento è di stanza da quando non ricordo più quale governo l’aveva trasferito da Pordenone.
Esiste un impalpabile confine a sud di Roma, una linea invisibile superata la quale non si affitta più, ma “SI LOCA”, dove i negozi hanno grandi insegne di plastica gialla e blu, le strade buche profonde che ti fanno rallentare proprio davanti a un chiosco che arrostisce carciofi. Gigantesche statue di Padre Pio o della Nike di Samotracia ti accolgono all’ingresso della pensione “The Quiin” – tre stelle con aria condizionata – e le vecchie case di tufo bianco e pietra lavica non hanno ancora deciso quale intonaco preferire: bianco? Giallo? Rosa? La chiamano “la terra dei fuochi”, ma sarebbe forse meglio “la terra dei torti”, tanto patiti quanto inflitti.
foto P.Capitini
Per il resto d’Italia questo luogo esagerato è un set per serie sulla camorra, cortei antiracket o per inchieste televisive. Tuttavia, se, come è capitato a me, si ha avuto la ventura di viverci per un po’ ci si accorge che era proprio quel mix di carognaggine individuale e sincera fratellanza a rendertela cara e indimenticabile.
Percorrendo la Casilina, dietro uno dei camion dei “F.lli Lo Cicero”, mi sentivo dunque come a casa dei cugini: estraneo ma in famiglia. Mentre lo scappamento del camion tentava caparbiamente di avvelenarmi, mi domandavo per quale ragione avessi poi deciso di andare. Ho imparato negli anni che ogni volta che ti fai una domanda devi avere pazienza; la risposta – quella vera – arriverà al momento giusto; nel frattempo passi il tempo a elencarti cazzate.
foto P.Capitini
Mi ero ritrovato quasi improvvisamente al cancello della caserma. Condotto là come il mulo verso la stalla.
Conoscevo bene il rituale. Il solito graduato mi avrebbe guardato torvo, poi qualcuno mi avrebbe indicato dove parcheggiare; dove andare e dove aspettare. I militari odiano la gente che va a spasso.
Mi ero così ritrovato sotto uno degli alberi di plastica che circondano il grande cortile. Dopo diciotto anni gli alberi erano identici a quelli che avevo lasciato: né più alti, né più grossi, ne avevo quindi dedotto che non potevano che essere di plastica.
Ai quattro angoli del cortile altrettanti carri tirati a lustro. Niente era stato trascurato della semplice coreografia che accompagna ogni “sobria e significativa” cerimonia. La platea con le sedie accuratamente allineate, il microfono per la voce fuori campo, il leggio con alzata a tortiglione in finto noce; l’ambulanza discretamente parcheggiata nel controviale. Anche il busto di La Marmora, reliquia della caserma Martelli di Pordenone, era al solito posto. Qualche mano assassina lo aveva dipinto di nero lucido.
Foto P.Capitini
Pian piano inziavano ad affluire ufficiali scintillanti, belle ragazze dalle gonne corte, matrone romane, ex-combattenti delle guerre risorgimentali, bambini irrequieti e generali sorridenti e un tantino rigidi. La solita umanità che come me sempre forma il pubblico in queste occasioni.
Il comandante cedente si aggirava sorridente, incapace di decidersi tra fare lo spigliato o lacrimare di commozione. Il subentrante invece scantonava educatamente sentendosi– se pur per pochi minuti – un usurpatore. Sotto il cappello piumato un po’malconcio sorridevo scambiando due parole con tenenti colonnelli pieni di medaglie che avevo accolto da giovani tenenti e con molti dei miei vecchi marescialli, custodi della saggezza di ogni reparto. Passati vent’anni in quel posto mi sentivo ancora a casa; in famiglia. Potevo ritenermi soddisfatto.
La fanfara aveva suonato “Adunata” e i bersaglieri erano entrati a frotte a riempire i ranghi delle compagnie. Si iniziava.
“Onori alla Bandiera di Guerra dell’Ottavo reggimento bersaglieri”. Aveva ordinato il comandante indeciso tra lo spigliato e il commosso e la Bandiera era entrata.
foto P.Capitini
La sosteneva il più giovane dei tenenti del reggimento, che come tutti i tenenti non aveva diritto neppure a un nome; al suo fianco l’Aiutante Maggiore la proteggeva e subito dietro i due Sottufficiali anziani completavano la scorta. Conoscevo solo loro.
Per un attimo la mia Bandiera mi era passata davanti; il drappo di seta un tantino consumato e scucito. Avevo ascoltato il rumore dei passi di corsa e il tintinnare delle medaglie.
Era passata snobbando tutti i presenti sistemandosi subito al sicuro tra i suoi bersaglieri. Anche loro, sapendo che era nei ranghi s’erano fatti un pelo più marziali. Io che comandante non ero più da tempo e non dovevo quindi scegliere tra essere spigliato o commosso ho lasciato andare un’unica lacrima senza senso. Forse l’acqua salata conservava il mio rimpianto per i giorni passati come pure l’orgoglio e la tenerezza per quei soldati che hanno sempre vent’anni. Non lo so.
foto P.Capitini
Alla fine ciò che mi importava era di aver finalmente ottenuto la risposta alla domanda: “che ci faccio qui“.. La grande scrittrice aveva torto. La risposta era là in mezzo ai bersaglieri, all’odore di lucido da scarpe e gasolio. Patria e Bandiera per me e per loro erano parole senza polvere.
Il drappo ondeggiava leggero al vento; il tenente Zizzari oggi è generale e la sua macchina ce l’ho ancora.
Nell’aria galleggiava il profumo di fine estate e chi vive da queste parti sa cosa vuol dire.
Il cielo è sempre d’un limpido azzurro e l’aria ancora calda, ma sospeso vicino alla terra è il sentore di uva e more mature; di stoppie secche e polvere. E le cicale non cantano più.
Sibillini (Foto P.Capitini)
La strada per Sasso si dirama dalla vecchia statale 76 verso Cupramontana. Degli antichi Umbri e Piceni era rimasta solo lei, Cupra, la dea; madre di Diana e nonna di tutte le Madonnine degli incroci. In questa parte d’Italia, schiacciata tra il mare e l’Appennino, le madonnine le trovi ovunque: dopo un ponte minuscolo; prima di una salita da dover frustare i cavalli o all’incrocio tra una strada bianca e il sentiero che accarezza i filari della vigna. Sono tutte uguali le Madonnine; una piccola casetta di mattoni gialli, come pane mal cotto, che il tempo e le piogge hanno sfornato con la pazienza di mille inverni. In quelle casette di focaccia, tegole e fede, in fondo, su una paretina intonacata, ci trovi sempre una Madonnina mal dipinta, un rosario scolorito e un cero rosso, spento. Qualche volta, di solito dopo maggio, anche una rosa rinsecchita, segno che da quelle parti sopravvivono gli antichi contadini; timorati di Dio e preoccupati del tempo.
Stavo dunque risalendo senza alcuna fretta una di queste strade a mezzacosta, con una macchina esageratamente larga e potente, una di quelle progettate per le autostrade e per chi vuole arrivare presto. L’appuntamento era per le cinque, l’ora in cui, sul finire dell’estate, gli Appennini perdono i colori e si vestono d’ombra.
La mia Ducati prima della cura (foto P.Capitini)
Dopo più di un anno di telefonate, lavori incomprensibili e contagi da Covid, la moto era finalmente pronta. Franco,il meccanico al quale mesi prima l’avevo affidata, aveva litigato con il vicino per una certa questione di parcheggio, innescando così la catena di eventi che mi portava oggi su quella strada.
Era stato uno di quei litigi frequenti in questi piccoli borghi dove ci si osserva per tutta la vita da dietro la stessa finestra, accumulando domande, invidie e sospetti che non si confesseranno mai. Basta però una foglia caduta, il fumo dell’erba bruciata o l’abbaiare del cane perché un giorno, d’improvviso, chi per anni ogni mattina ti ha salutato con un gesto di mano inizia a litigare.
“Vole fa’ a questione…” si dice da queste parti, significando che è arrivato il momento di vomitare tutte le minuscole cose storte che giorno per giorno si sono sedimentate come limo nel pozzo ma che la riservatezza di questi borghi non aveva mai smosso.
Si farà pace, certo, ma dalla litigata dell’8 agosto 2022 si inizierà a contare un tempo nuovo. Un tempo che non contempla perdono e apre a una nuova fase della vita, solo in apparenza identica alla precedente. Probabilmente non si giocherà più a briscola allo stesso tavolo e neppure si faranno i complimenti al vino nuovo. Ci si saluterà con rispetto e distacco fino a che un fatto nuovo non li riavvicinerà davvero.
Franco, il meccanico, era stato appunto coinvolto in una di queste faccende. Dopo tre settimane di vacanza in Gargano il suo vicino era rientrato deciso a “fare a questione”. Con ogni evidenza l’aria di mare aveva dato la stura a quanto aveva sopportato per anni, a cominciare dalla Citroen 2CV che Franco gli aveva chiesto di parcheggiare in cortile.
Le Marche d’Estate – uno scorcio della campagna attorno a Serra San Quirico (foto P.Capitini)
Poco importava che fosse stato proprio lui, il vicino garganico, ad avergli dato il permesso. Quello pronunciato allora era uno di quei “SI” che volevano essere un “NO”. Dopo un po’, come un’eco in montagna, Quel NO nato SI aveva preso a rimbombare frasi cattive, foriere di pioggia come:”…non lo dovevi fare… sei troppo buono… ti sei fatto mettere sotto…”. E siccome a nessuno piace passare da fesso, l’equivoco, come un fiume carsico, molti anni e molti sorrisi dopo il primo: “prego, ci mancherebbe” era tornato a galla.
Fatto sta che Franco aveva ritirato la “Due Cavalli” dal cortile del vicino garganico sistemandola, anzi comprimendola provvisoriamente nell’officina.
Già, l’officina.
Chi legge si appende fiducioso alla catenella di parole offerta da chi scrive. In questo caso la parola è “officina”, ma se avete immaginato un largo ambiente dalle pareti bianche con le strisce bianche e azzurre e un calendario con una ragazza nuda dall’espressione pre-orgasmica… beh, mi dispiace, ma siete fuori strada. L’officina di Franco è un tantino diversa.
In origine credo fosse la rimessa in lamiera ondulata acquistata per parcheggiare la Fiat 127 sport appena comprata. La posizione era stata obbligata dalla recinzione del vicino e dal grande olmo reale che da almeno cent’anni vi cresceva poco lontano. Il resto dell’agglomerato metallico-lamieristico si era sviluppato nel tempo trasformando l’officina in una sorta di nuraghe.
In questa parte d’Italia le case coloniche non assomigliano alle grandi cascine della pianura padana e neppure alle masserie dalle mura alte e bianche del Tavoliere. Sono case piccole: due piani con tetto in tegole rosse; scala esterna e fienile separato.
Sono case di mezzadri. Tutte uguali.
Marianna, l’oca da guardia- (Foto P.Capitini)
Capitava però che talvolta una giovane mezzadra partorisse con troppa frequenza oppure il nonno campasse più del consentito o anche che la guerra risparmiasse i figli che la Patria avevano reclamato. Oppure – ma accadeva di rado – il mezzadro era infine riuscito ad acquistare la terra sulla quale si spaccava la schiena. Una di certo una liberazione. Niente più patti agrari da rinnovare il giorno di San Giovanni, quando le donne colgono l’ipèrico e lasciano i petali dei fiori a galleggiare nell’acqua di fonte per tutta la notte così che al mattino si possano lavare il viso per conservare la bellezza.
In questi o in altri mille casi non si comprava un’altra cascina, né si abbatteva la vecchia, ma si costruiva una stanza nuova dove si poteva. Se poi ne fosse servita un’altra la si sarebbe tirata su a tempo debito. Insomma era quella dei mezzadri un’edilizia del tempo presente. Con lo stesso criterio Franco, negli spazi resi disponibili dal grande olmo reale, aveva ampliato l’originario capanno salva-127 con altri semi-capanni, sempre in lamiera. L’ultimo limite, per ora ritenuto invalicabile, era l’orto con annesso pollaio. A dire il vero, a parte quattro piante di albicocco, di orto non si poteva parlare e anche il pollaio era più che altro la satrapia di Marianna, una grossa oca bianca aggressiva e presuntuosa che Franco teneva al posto del cane da guardia. Marianna viveva in simbiosi con un’anonima gallina ovaiola che la seguiva remissiva ovunque andasse, pur mantenendosi a debita distanza. Questa era dunque l’officina di Franco: niente strisce bianche e blu, ponte elevatore e neppure ragazze semi-nude. Dimenticavo. L’altezza non arrivava a due metri.
l’officina di Franco – particolare (foto P.Capitini)
Là dentro, per oltre un anno e mezzo, era rimasta chiusa la mia Ducati scrambler 450 arancione. Ora il restauro era finito e per via del litigio con il vicino garganico era anche giunto il momento di andarla a prendere. Per questo stavo risalendo la strada comunale verso Sasso.
Nel tempo trascorso in officina il mondo aveva sperimentato la pandemia, la caduta di un paio di governi e anche la guerra in Ucraina. Io invece avevo vissuto l’annacquarsi di una storia importante, lo sbandamento dell’isolamento e credo anche un inizio di depressione. Faccende senza valore sulle quali ci piace perder tempo finché qualcuno, guardando una lastra ci dice “C’è qualcosa che non mi piace. La vede quella macchia?”
Papà e la mia moto. (Foto P.Capitini)
Oltre a qualche malinconica lagna in quei mesi avevo scoperto che la mia storica Ducati non era affatto arancione e che non era neppure mia, ma ufficialmente ancora di Francesco, collega di corso che a Torino me l’aveva venduta per 35.000 lire e al quale nel 1984 avevo promesso di provvedere in settimana al passaggio di proprietà. Ad essere sincero già lo sapevo visto che l’arancione l’avevo spruzzato io; in parte in cortile, in parte sul tavolo della cucina dell’appartamento di Torino che allora dividevo con altri colleghi d’Accademia, in corso Francia 276, 5° piano. Avrei però giurato che fosse davvero viola scuro, ma Giannello Cercamondi, titolare della carrozzeria “Moto OK” di Senigallia, aveva invece scoperto che era nata gialla con striscia nera sul serbatoio. E così sarebbe tornata. Amen.
Carrozzeria di Giannello, particolari sacri (foto P.Capitini)
Come Franco, anche Giannello, era un “tipo adriatico”. Quel tipo di persone che si trovano su questa costa come telline dopo la mareggiata. Sono anarchiche e geniali, ma composte e un po’ introverse; non parlano quasi mai, tuttavia si votano a imprese sorprendenti e quasi mai redditizie. Giannello ad esempio era stato pugile della nazionale olimpica – credo peso leggero – poi carrozziere e ora era diacono della chiesa cattolica. Testimoniavano delle sue passioni una sorta di altare con crocifissi e madonne proprio all’ingresso della carrozzeria e un paio di guantoni, appesi sopra la cassa. Giannello non era solo un carrozziere per moto; era il custode dell’anima estetica del motociclismo dagli anni ’70 ai ’90, data passata la quale l’elettronica e la plastica l’avevano ucciso. Il Diacono aveva dunque sentenziato che lo spirito della mia Ducati era giallo con striscia nera, ma non basta. Aveva anche trovato l’antro dove risiedeva: il serbatoio.
A guardarlo bene il mio era ammaccato e aggredito da qualcosa di peggio di un semplice principio di ruggine. Una scelta ragionevole sarebbe dunque stata quella di cambiarlo. Sia mai!
Il giorno dell’arrivo (foto I. Astolfi).
“ L’hai stretto tra le gambe e ti ha portato dove volevi andare” – mi aveva detto con la dolcezza senza pietà di un vero cattolico; la stessa delle suore divoratrici di rosari e di carne umana – “Le bozze gliele hai fatte tu e la ruggine è colpa tua che hai perso tempo… Ripariamo! Ripariamo!” La sentenza della Cassazione era stata emessa ponendo la parola “fine” su ogni mia possibile innovazione estetica, compresa quella di farla ancora arancione.
Aveva impiegato quasi due mesi a riportare parafanghi e serbatoio allo stato nativo e a purificarli da tutte le mie colpe. A me erano bastati invece dieci minuti e meno di cinquecento euro per ringraziarlo, infilare tutto in una scatola e portarli a Franco che in quanto appartenente a un diverso ordine monastico motociclistico non s’interessava di carrozzeria.
Nel suo eremo di lamiera ondulata, all’ombra di un olmo sempre più ingombrante e tenuto al sicuro da un’oca bisbetica, Franco aveva vivisezionato motore fino a svelarne i più reconditi misteri. Con raccapriccio aveva scoperto che qualche eretico incompetente, sperduto chissà dove tra Piemonte e Toscana, aveva montato getti sbagliati nel carburatore. Qualcun altro aveva sostituito la coppia conica con una non originale e molti altri misfatti di minor conto erano stati compiuti, giuro a mia insaputa. Era indubbio però che la mia moto avesse bisogno di un esorcismo che la mondasse d’ogni peccato.
L’officina di Franco, altro particolare (foto P.Capitini)
Dopo l’autopsia era stata finalmente identificata come una Ducati 450 scrambler prima serie, gialla e con serbatoio con riga nera, anche se il contagiri – orrore – non era originale come pure il fanalino posteriore che a prima vista non aveva nulla che non andasse.
Nei miei rari pellegrinaggi al monastero-officina, Franco aveva invano tentato di introdurmi alla mirabile geometria del monocilindrico creato dall’ingegner Taglioni; da parte mia avevo dovuto compiere non pochi sforzi per nascondere che di tutte quelle cose poco ne capivo. Ammetterlo sarebbe stato come professarsi luterano di fronte all’inquisizione spagnola: ad accendere il rogo ci vuole un attimo.
Confesso di avere una certa tendenza a non farmi gli affari miei e di essere molto affascinato dai percorsi che conducono le persone ad essere quello che sono. A ben guardare si scopre che sono sempre percorsi lastricati di emozioni, dove non si trova un metro di raziocinio neppure a cercarlo.
La mia Ducati scrambler 450 dopo la cura. A destra, sullo sfondo il tronco dell’olmo e l’ingresso dell’officina (foto P.Capitini)
Franco, ad esempio, era salito sulla sua prima moto più di cinquant’anni prima. Si era trattato di un residuato bellico – forse una Guzzi o una Gilera – preso per andare al lavoro giù nella valle, a Fabriano. A quel tempo la città era entrata nella modernità grazie al cavalier Merloni che invece di un partito politico e di dar forza all’Italia, s’era inventato le lavatrici e i frigoriferiARISTON.
Insieme alle secolari cartiere i fabrianesi avevano allora scoperto che si poteva vivere e guadagnare anche facendo l’operaio e non solo emigrando o spaccandosi gambe e schiena su per le colline tanto ripide da scoraggiare una capra. Con i primi stipendi Franco s’era quindi comprato una Ducati e da allora nel suo cuore il monocilindrico bolognese aveva sostituito il monoteismo. Col tempo era anche divenuto una sorta di gran sacerdote delle Ducati d’antan, conosciuto e venerato anche in altre province dell’Impero.
Adesso il risultato del suo lavoro se ne stava lì, sul cavalletto centrale, con un “Aermacchi – Harley Davidson” e una Ducati 350 Sport TS a farle da damigelle.
“Sai, di motori ne ho fatti tanti, ma è la prima volta che restauro una moto tutta intera” mi aveva confessato a mezza voce. M’era venuto di rispondere: “E’ stupenda” un po’ perché sembrava davvero appena uscita dalla fabbrica e un po’ per non lasciargli alcun dubbio d’aver davvero compiuto un miracolo.
“Ci sarebbe da cambiare la sella” – aveva aggiunto – “ Questa è originale Ducati, ma questo modello montava…”. Con un gesto garbato lo avevo interrotto. “Va bene così. La sella resta”.
Come potevo spiegargli che su quella sella, proprio su quella, m’ero seduto per andare alla scuola ufficiali e per questo ero stato punito perché oltre ad essere senza casco ero anche senza berretto. Sulla stessa sella s’era seduta anche il mio Grande Amore, l’unica ragazza per la quale m’era venuto in mente di chiedere soldi a prestito per un anello con diamante, premessa di una vita normale così come a ventun’anni potevo immaginarmela. Sempre su quella sella m’ero fatto Torino-Ancona e ritorno senza casco e con la metà delle sfere dei cuscinetti bruciate; e poi le gite sul Cònero con lei che mi stringeva forte … insomma, la sella restava.
Sella dei ricordi (foto P.Capitini)
“La metto in moto?” – avevo chiesto con timore. “E’ la tua! Che la voi guarda’ solo?” Il largo sorriso di Franco aveva poi sottolineato l’ovvio. Un motore è fatto per andare, vibrare, scaldare, perdere olio e borbottare al minimo. I quadri si guardano, le moto si guidano. Così dopo anni ho tirato l’alza-valvole, ho dato giusto un quarto d’acceleratore e trovato il punto morto del pistone via! Una botta decisa al pedale della messa in moto, sperando che non tornasse indietro spaccandomi un ginocchio. La mia Ducati s’è messa in moto con un borbottio familiare come il nitrito del proprio cavallo. Ci sono salito e senza casco, senza assicurazione e senza neppure la targa sono partito per un giro sulle colline. Dopo un paio di chilometri ci siamo riconosciuti. Mi veniva da ridere.
Trent’anni dopo il serbatoio e la sella erano gli stessi, come le vibrazioni, le marce al contrario e i freni alla spera-in-Dio. Confesso d’aver pregato nel miracolo di essere anche io lo stesso di allora, prima che trent’anni di vita militare mi trasformassero in quell’uomo che giorno per giorno stento a riconoscere. Per fortuna Max, l’amico di sempre, mi parlava con lo stesso tono di voce e rideva alle mie battute come aveva sempre fatto, concludendo con il suo solito “…ma vaffanculo!”
Anche Max, geologo, marito, impiantista, guida alle grotte di Frasassi e fine restauratore di auto e moto d’epoca è un tipo adriatico. Inizio a sperare di esserlo anche io.
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