Il Paese d’Abbastanza e l’Impero degli Undici Fusi

foto p.Capitini

In un paese non troppo lontano viveva un re, anzi un Imperatore. Aveva un brutto carattere, l’Imperatore, almeno così dicevano in molti. Parlava poco e ascoltava molto ma soprattutto guardava tutti con occhietti piccoli e fissi, del colore del ghiaccio che fonde. Sorrideva di rado e di solito non era un buon segno. L’Imperatore governava un paese immenso, così tanto immenso che quando a un capo iniziava ad albeggiare dall’altro era già ora di andare a dormire. Nell’Impero c’erano undici fusi orari tant’è che la gente lo aveva chiamato l’Impero degli Undici Fusi.

Un paese cosi grande – direte voi – sarà stato così potente da non temere nulla e nessuno. E invece no. L’Imperatore, come quello che l’aveva preceduto e quello prima ancora, aveva una gran paura che il resto del mondo se la prendesse con lui. Sarà stato per via del brutto carattere, ma l’Imperatore non voleva gente vicino, soprattutto gente che non poteva controllare.

foto WEB

Ora, vicino all’Impero degli Undici Fusi c’era un paese abbastanza grande, abbastanza libero, abbastanza ricco tanto che tutti lo chiamavano il Paese di Abbastanza. La gente del Paese di Abbastanza non era poi così diversa dai sudditi dell’Impero degli Undici Fusi, anzi nei tempi passati il Paese di Abbastanza aveva fatto addirittura parte dell’Impero, ma ormai le cose erano cambiate o almeno così credevano gli abitanti del Paese di Abbastanza. Ne erano così tanto persuasi che da qualche anno avevano preso a mal tollerare i cittadini che nel Paese di Abbastanza avevano qualche legame con l’Impero degli Undici Fusi. Un sopruso oggi e uno domani era andata a finire che nel Paese dell’Abbastanza era scoppiata una specie di guerra tra cittadini che dicevano di essere i veri cittadini di Abbastanza e quelli che invece per via dei nonni e dei bisnonni avevano radici e lingue nell’Impero degli Undici Fusi. La cosa era iniziata pian piano ma sapete com’è la guerra, una fucilata tira l’altra e una cannonata tira l’altra e la cosa s’era fatta pericolosa.

Il Paese di Abbastanza non aveva un Imperatore Scorbutico ma un Presidente Simpatico. Era giovane, aveva fatto l’attore e sorrideva sempre. Restava simpatico a tutti meno che all’Imperatore scorbutico, ma si sa, non si può essere simpatici a tutti. Per via di questa antipatia e anche perché un po’ di paura l’Impero degli Undici Fusi, grande e grosso com’era, la metteva davvero, il Presidente Simpatico aveva pensato di farsi dei nuovi amici, ma non amici qualsiasi, per carità: ci volevano amici grandi e grossi che potessero anche far paura all’Imperatore scorbutico.

Matriosche – foto p.Capitini

Non dovette neppure cercare tanto perché appena ebbe detto che era alla ricerca di nuovi amici subito se ne presentarono parecchi. Il più importante e grande di questi viveva al di là dell’oceano, oltre il tramonto. Era un bel paese quello, pieno di fiumi e strade e montagne e di gente felice di tutti i colori. Avevano un sacco di soldi, la CocaCola e il cinema. La gente lo chiamava il Paese d’Oltremare. Anche il Paese d’Oltremare aveva un Presidente, certo non simpatico come quello del Paese di Abbastanza ma che faceva comunque la sua figura. Il Paese d’Oltremare aveva un sacco di amici, tutti paesi più piccoli che dicevano un gran bene del Paese d’Oltremare e che, quasi sempre, si trovavano d’accordo con quello che pensava il loro Presidente. Quando il Presidente Simpatico del Paese di Abbastanza chiese al Presidente del Paese d’Oltremare di stringere amicizia, questi aveva subito detto di si e anche tutti i suoi amici avevano anch’essi detto di si e siccome erano diventati amici inziarono a mandargli armi, cannoni, soldi e un po’ di gente che gli avrebbe spiegato come si usavano. A parte i soldi che quelli tutti sapevano come usarli.

Ora c’è da dire che per una vecchia faccenda che ora non ricordo l’Imperatore degli Undici Fusi e il Presidente del Paese d’Oltremare non si potevano vedere e non mancavano occasione di farsi dispetti. Erano andati avanti così per anni e nessuno in fondo se ne era preoccupato più di tanto. Però che il Paese di Abbastanza fosse diventato così amico del Paese d’Oltremare all’Imperatore scorbutico non era proprio andata giù. Come era sua abitudine aveva avvertito il Presidente Simpatico e anche tutti gli altri che quella cosa non gli piaceva per niente e che forse sarebbe stato meglio se quell’amicizia fosse stata un po’ meno stretta. Diciamo che una conoscenza educata sarebbe anche andata bene. L’aveva ripetuto un sacco di volte, ma ogni volta il Presidente del Paese d’Oltremare e tutti i suoi amici non lo prendevano sul serio e anzi gli rispondevano che loro avrebbero fatto quel che volevano e che si mettesse pure l’anima in pace.

Oltre ad essere scorbutico l’Imperatore era anche parecchio permaloso, più permaloso della media degli imperatori. Aveva anche un bell’esercito, grande e grosso. Certo non grande e grosso come quello del Presidente del Paese d’Oltremare ma comunque era pur sempre un esercito di tutto rispetto. Fu così che una sera d’inverno l’Imperatore degli Undici Fusi decise di invadere il Paese di Abbastanza. Nessuno se l’aspettava perché le guerre, in quella parte di mondo, erano passate di moda, ma si sa, l’Imperatore era uno all’antica così aveva iniziato una guerra all’antica di quelle con tanti carri armati, cannoni e aerei e bombe tirate qua e là.

Il Presidente Simpatico del Paese di Abbastanza non la prese affatto bene, anzi. E visto che anche lui in fondo era un tipo tosto iniziò a far la guerra anche lui. Il Presidente del Paese d’Oltremare e tutti i suoi amici giurarono e spergiurarono di aiutare il Paese di Abbastanza con tutto quello che sarebbe servito a fare una guerra: bombe, armi, soldi, cannoni… tutto. Ma non era bastato. Si erano anche messi d’accordo per una cosa chiamata “sanzioni” che in pratica consiste nel non comprare né vendere niente all’Impero degli Undici Fusi. L’idea era che senza più comprare o vendergli niente ben presto l’Impero sarebbe diventato povero, ma così povero da non aver più soldi per fare la guerra. Tutti applaudirono soddisfatti. A dire il vero qualcuno tra gli amici del Presidente d’Oltremare fece presente che non vendendo né comprando niente anche loro, gli amici, ci avrebbero rimesso, e anche tanto. Tuttavia non ci fu nulla da fare: era una questione di principio e si sa come vanno queste cose; quando una cosa diventa una questione di principio…

foto p.Capitini

Qualcun altro fece anche presente che tutte le fabbriche, l’elettricità e anche i fornelli degli amici del Presidente d’Oltremare funzionavano perché l’Imperatore Scorbutico mandava loro il gas. Certo, essendo scorbutico e permaloso non lo faceva gratis, voleva essere pagato, ma a onor del vero, l’Imperatore aveva sempre continuato a mandarlo senza perdere un giorno; almeno fintanto che avevano continuato a pagarglielo. Ora però c’erano le sanzioni e il gas non si poteva più prendere. Comprare gas da un imperatore scorbutico, permaloso e che faceva la guerra era davvero una cosa brutta. “Non vi preoccupate” – sentenziò felice il Presidente del Paese d’Oltremare– “Il gas ve lo mando io, certo che capirete come venendo il gas da molto lontano vi costerà qualche soldo in più”. Tutti gli amici assentirono. Alcuni sembrarono poco convinti ma assentirono lo stesso per non fare brutta figura. Il gas più caro che veniva dal Paese d’Oltremare comunque non bastava così tutti gli amici si affrettarono a comprarne altro da altri paesi brutti, sporchi e cattivi quanto e più dell’Impero degli Undici Fusi, ma come si è detto; era una questione di principio.

Intanto la guerra dell’Imperatore al Paese di Abbastanza andava avanti. Tutti erano sicuri che il Presidente Simpatico avrebbe vinto, anzi trionfato e continuavano a mandargli armi e cannoni, e più ne mandavano più la guerra andava avanti. Anche l’Imperatore e il suo esercito andavano avanti, piano piano, un chilometro alla volta e i soldati del Paese di Abbastanza, per quanto coraggiosi, si ritiravano un chilometro alla volta.

foto p.Capitini

Si andò avanti così per giorni e giorni e poi per mesi con i soldati dell’Imperatore che spingevano e morivano e quelli del Presidente Simpatico che si ritiravano e morivano anche loro. Anche le sanzioni del Presidente d’Oltreoceano e dei suoi amici continuarono giorno dopo giorno sempre convinti che questo avrebbe fermato l’Imperatore.

Venne poi un giorno, poteva essere un martedì mattina o forse un mercoledì, che i soldati del Presidente Simpatico, visto che malgrado l’impegno, il coraggio e le armi nuove e bellissime che gli aveva fornito il Presidente d’Oltroceano non riuscivano a vincere, decisero che non volevano più morire. Lo decisero prima in pochi, poi sempre di più e infine tutto l’esercito del Presidente Simpatico decise che ne aveva avuto abbastanza e che da quel momento in poi non avrebbero più combattuto e se ne sarebbero tornati a casa loro.

La decisione di quel martedì mattina sorprese tutti, ma accade sempre così con la guerra di usura, dagli oggi e dagli domani dopo un po’ di tempo non rimane più nulla da usurare. La fine della guerra sorprese il Presidente d’Oltreoceano, tutti i suoi amici e anche il Presidente del Paese d’Abbastanza anche se lui un po’ meno. L’unico che non fu sorpreso fu l’Imperatore. Da mesi infatti aveva pensato e fatto proprio quello. Indebolire goccia a goccia l’esercito del Paese di Abbastanza. Insomma un martedì mattina o forse un mercoledì ci si accorse che l’Imperatore scorbutico aveva vinto. Non era diventato più povero, non aveva perso nessuna battaglia e neppure il suo popolo l’aveva buttato giù così come avevano pensato e a un certo punto solo sperato il Presidente di Oltreoceano e tutti i suoi amici. L’imperatore aveva semplicemente vinto.

E adesso? Dipinto come un mostro senza alcun sentimento, al di là del confine che separava il Paese di Abbastanza da quelli degli amici del Presidente d’Oltreoceano tutti pensarono che a questo punto l’Imperatore si sarebbe vendicato, avrebbe ucciso, deportato, incendiato e altre cose che normalmente fanno gli Imperatori. E invece no. L’imperatore si fermò sulla riva del grande fiume che da nord a sud divideva il Paese di Abbastanza. Si fermò; i carri armati spensero i motori, i cannoni abbassarono le canne e anche i soldati si sedettero sotto un albero a fumare. D’improvviso il silenzio che per tanti mesi era fuggito da quei posti tornò ad abitarne i prati e le macerie. “che strano” – pensò l’Imperatore scorbutico – “in fondo il primo segno della pace è il silenzio. Qualcuno ricordò allora all’Imperatore che non si può fare la pace da soli e che si deve fare con il nemico. Vennero dunque mandati messi e ambasciatori verso il Paese di Abbastanza per trovare il Presidente Simpatico e iniziare a negoziare.

foto p.Capitini

Cerca, cerca però il Presidente Simpatico non si trovava. Da quando il suo esercito aveva deciso di smettere di combattere e metà del paese era finito in mano all’Imperatore era scomparso. C’era chi diceva fosse volato via con un elicottero verso il Paese d’Oltreoceano, chi invece giurava che si fosse sparato. Resta il fatto che in tutto il Paese di Abbastanza non si trovava un solo presidente con cui parlare. All’imperatore venne in mente una soluzione semplice che aveva sempre funzionato in passato. “Facciamo delle elezioni così avremo un nuovo presidente”. A dire il vero la gente del Paese di Abbastanza non si fidava troppo di elezioni organizzate dall’Imperatore scorbutico, ma d’altra parte era lui che aveva vinto e una dei vantaggi di vincere rispetto a perdere è che puoi fare quello che ti pare. Vennero quindi indette nuove elezioni libere. Fu una cosa seria tanto che fu lo stesso Imperatore scorbutico, proprio lui, a scegliere uno per uno i tre candidati. Vinse il numero due che venne subito proclamato Presidente del Paese di Abbastanza e siccome era amico del cugino dell’Imperatore e non voleva dispiacerlo, firmò tutto quello che c’era da firmare, consegnò tutto ciò che c’era da consegnare e giurò tutto quello che c’era da giurare. La banda suonò e la bandiera salì sul pennone.

Tra le cose che il nuovo presidente aveva giurato c’era che mai e poi mai avrebbe chiesto niente al Presidente d’Oltreoceano e ai suoi amici. Non avrebbe accettato neppure regali. Questo offese moltissimo il Presidente d’Oltreoceano che si mise a urlare, minacciare, intimidire e schierò un grande esercito proprio attaccato al confine dell’Impero degli Undici Fusi. L’Imperatore non la prese bene e i due ripresero a litigare come avevano sempre fatto, solo che adesso l’imperatore poteva dire al Presidente che aveva vinto e che quindi tutta quella storia di mandare armi, cannoni, soldi e gente al Presidente Simpatico non aveva funzionato. E non aveva funzionato nemmeno non vendergli né comprargli più nulla visto che nel frattempo l’Imperatore aveva trovato altri regni e imperi a cui vendere tutto quello che aveva. L’imperatore aveva infatti ferro, legno, carbone, oro in gran quantità ma ancor più aveva petrolio e gas e, si sa, quando hai oro, petrolio e gas si trova sempre qualcuno disposto a comprarli. A qualcuno venne in mente che anche i paesi amici del Presidente di Oltremare avevano bisogno di gas visto che in tutti quei mesi in cui sbraitavano e condannavano non erano riusciti a riempire le scorte e l’inverno appariva lungo e freddo. Qualcun altro propose al Presidente di Oltremare che forse era il caso che si iniziasse a parlare con l’Imperatore scorbutico proprio perché l’inverno si annunciava freddo e nevoso, ma il Presidente non volle sentir ragioni. Un paio di persone fecero però notare che faceva presto lui a parlare così. Lui il gas e il petrolio ne aveva quanto ne voleva, anzi lo vendeva addirittura ai suoi amici. A dire il vero lo vendeva anche più caro di quello dell’Imperatore. Pian piano tutti gli amici presero a litigare tra loro. Chi voleva il gas, chi non lo voleva, chi aspettava il petrolio e chi invece aspettava di capire che cosa si sarebbe deciso. Molti anni prima, in un tempo di pace e abbondanza, tutti i paesi amici del Presidente di Oltremare si erano riuniti in una specie di alleanza chiamata Unione, promettendo di aiutarsi e sostenersi a vicenda. La cosa bene o male aveva funzionato per oltre vent’anni, ma poi prima una grande crisi economica, poi un virus dal nome di detersivo e infine la guerra dell’Imperatore avevano iniziato a far scricchiolare questa bella amicizia. L’Imperatore ne approfittò e telefonò uno ad uno a tutti i capi e i re di quei paesi “Si lo so, mi avete chiamato criminale, macellaio, assassino e tante cose brutte, ma ormai la guerra è finita ed è tempo di guardare avanti” – diceva a questo o a quel ministro – “Visto che voi siete senza gas, volete che ve lo chiuda una volta per tutte o preferite che ve lo mandi alla metà del prezzo del Presidente d’Oltremare?

Era una bella domanda. C’era da scegliere tra far contento il Presidente d’Oltremare e morirsi di freddo oppure farlo arrabbiare e accendere forni, termosifoni e fabbriche. Ripresero tutti a litigare anche su quello e alla fine decisero che avrebbero fatto come si faceva una volta: ognuno come gli pare, ma questa è un’altra favola.

“Scusi, quel posto è libero?” – l’alta umanità prima dell’alta velocità.

Roma – Stazione Termini (foto p.Capitini)

Scusate, è libero quello?” Se ti andava bene un cenno del capo sarebbe bastato altrimenti un’occhiata da pittbull ti avrebbe convinto a proseguire lungo il corridoio. Si avanzava a stento, tra gli strapuntini occupati, zigzagando tra valige color tabacco e il bel ragazzo che come fosse oppio aspirava un’MS, fissando la ragazza appollaiata sullo strapuntino lì accanto. Non si era accorto che le sue dita di bimba seguivano “la cultura come prassi” di Baumann” così come un ebreo sfiora il rotolo della Torah, segno che non c’era alcuna speranza di attaccare bottone.

Sulla linea adriatica, la Lecce – Bologna – Milano, era fondamentale scegliere lo scompartimento giusto. Quei treni trasportavano l’Italia del miracolo economico e dello sradicamento; gli studenti di Bologna che lanciavano molotov ai poliziotti ma avevano in valigia il sugo al basilico preparato da mamma; i militari in “licenza breve” con biglietto a tariffa 5, gli scout che cantavano “grazie signore grazie“, suore imbalsamate, emigranti, medici, preti e carabinieri in uniforme… insomma ci trovavi tutta l’Italia e anche l’Italia si ritrovava sui consunti sedili in vellutino verde.

Reparto scout Falconara 2 … (foto… non lo so).

Durante la ricerca del posto perfetto si incontravano figure immutabili come le carte dei tarocchi. Ad esempio “la vecchia ”. Aveva un’età indefinita, una collana di perle e un cammeo sul bavero sinistro, esibito come fosse il distintivo del Partito delle Persone Dabbene. “La Vecchia” sedeva sempre vicino al finestrino, profumava di colonia Atkinsons e occupava il sedile al suo fianco con “Gioia”, “Gente”, “Oggi” e “Grand Hotel” perché ci teneva ad apparire informata. Andava sempre a trovare una figlia sposata a Modena e ti avrebbe parlato del marito morto da poco e della suocera “… per carità, tanto brava ma…” Via! Da evitare come la peste

Si viaggiava sempre per un motivo serio sull’Adriatica. Ai perditempo e ai turisti avevano invece riservato la tirrenica. Vuoi mettere infatti Napoli, Salerno e Roma con Pescara, Ancona e Bologna? E poi l’adriatica portava a Milano Centrale e lassù, come fosse l’ultimo sportello di un armadio, si andava solo per lavorare.

foto p.Capitini

Lo scompartimento successivo lo trovavi chiuso. le tendine marroni ben serrate. A quel punto era meglio ricordarsi che il treno nasceva a Lecce e quello era l’inequivocabile segnale di divieto d’accesso. Spalancare la porta scorrevole avrebbe infatti significato essere investiti da un fetore di piedi, calzini, fumo e sudore con cui avresti poi dovuto convivere per il resto del viaggio. Ti va di rischiare? Solo il controllore osava aprire quella specie di ovile.

Si scorreva ancora fino al prossimo scompartimento dove forse qualcuno guardando prima la tua valigia da esule politico e poi il viso supplice avrebbe forse detto “Io scendo a Pesaro”. Accanto a lui nell’ordine si contavano: mamma non due bimbi, signore con libro ed occhiali; militare; bella ragazza 1 e bella ragazza 2. Valeva la pena aspettare fino a Pesaro e farsi il resto del viaggio in loro compagnia. Era ovvio però che Bella Ragazza 1 e Bella Ragazza 2 sarebbero scese a Bologna e a te sarebbe toccato il resto del viaggio fino a Milan con mamma, signore occhialuto e altre due carte estratte dal mazzo, compresa, forse, la suora e il ciccione.

Perché tutta l’umanità meno gradevole se ne andava a Milano? Che posto terribile doveva essere visto che dopo si e no un anno ti faceva dimenticare il tuo accento e iniziavi a parlare con una e tanto aperta da suonare uno squillo di tromba. Milano, che come cantava Lucio Dalla … faceva una domanda in tedesco e rispondeva in siciliano.

Io a Milano non c’ero mai stato ma a Bologna si. Per noi marchigiani d’Adriatico Bologna era la città; un po’ nord e un po’ casa. Noi che fino all’estate prima giocavamo a pallone sulla spiaggia, abbronzati e panati di sale e sabbia, una volta a Bologna ci scoprivamo cittadini, qualcuno addirittura leggeva Marx, altri Pavese. Qualcun altro scopriva i collettivi e l’Autonomia” e magari si trovava in mano una P38 e qualcuno che gli indicava contro chi usarla. L’unico cordone che teneva legati a casa e alla spiaggia studenti, terroristi, ragazze già donne e ottimisti pronti alla fuga era la ferrovia Adriatica.

Stazione di Falconara Marittima (AN) – particolare (foto p.Capitini)

Falconara Stazione di Falconara. Treno espresso da Lecce per Bologna delle 17,31 è in arrivo al binario 3. Viaggia con 117 minuti di ritardo. Ferma a Senigallia, Fano, Pesaro, Rimini, Forlì Imola e Bologna”. Mi sono sempre chiesto perché le Ferrovie dello Stato – quelle che esistevano prima di Trenitalia – si ostinassero ad annunciare ritardi che avrebbero avuto bisogno di un pallottoliere per essere decifrati. E che cazzo! Quante ore sono 117 minuti? E che ti costava tanto dire che ha due ore di ritardo?

Decriptato il messaggio qualcuno sul binario tre bestemmiava sottovoce, qualcun altro si girava e chiedeva “Che ha detto?” e poi c’era sempre quello che con granitica sicurezza se ne usciva con “Tranquilli, tanto dopo Senigallia recupera!”. Perchè? Per quale arcano sortilegio dopo Senigallia avrebbe recuperato non si è mai saputo.

Ho sempre amato i treni anzi potrei dire che li ho sempre ammirati. A quel tempo uno degli sport preferiti dei papà era “vieni che ti porto a vedere i treni” e quando ne passava qualcuno fischiando ci dicevano “saluta il treno con la manina”. Da allora il treno è rimasto per me un totem assoluto . Anche perché, cosa volete, agli occhi di un bambino il treno sembrava un mostro inspiegabile, dotato di vita propria. Si muoveva, rumoreggiava, strideva e fischiava senza che nessuno gli imponesse una qualsivoglia volontà. In realtà c’era stato detto che la dentro, da qualche parte, c’era il macchinista, l’unico essere umano che il treno rispettasse davvero.

Macchinisti (foto p.Capitini)

Il macchinista viveva nel treno e non aveva paura di niente. Solo una cosa lo terrorizzava : che qualcuno finisse sotto il treno. Che si fosse buttato o si fosse trattato di un incidente poco importava. Il macchinista a quel punto sarebbe impazzito, poi l’avrebbero arrestato e infine l’avrebbero lasciato per tutta la vita nelle stazioni piccole a spostare vagoni con le locomotive piccole e gialle che non facevano paura a nessuno e che non andavano da nessuna parte. Almeno così dicevano mamma, papà e Pietro Germi. Sarà per questo che in stazione osservavo con sospetto i macchinisti in manovra; per me palesemente tutti assassini impazziti.

Io però uno dei domatori di treni l’avevo conosciuto davvero. Era il signor Esposito, vicino di casa e macchinista. Anche lui, come mio padre poliziotto, lavorava di notte per cui il silenzio e il rispetto del sonno di entrambi era da considerare sacro. Almeno lo era per me e per Sauro, il mio amico del cuore il cui papà faceva la guardia notturna in bicicletta. Altra persona da non svegliare. Adesso che ci penso tra Via Piave, via Solferino e via Ciro Menotti dormivano tutti. Anche il padre di Max che era finanziere e quello di Orlandini pure lui poliziotto. Comunque con i treni questo c’entra poco e noi continuavamo a giocare a pallone per strada tirando pallonate contro i portoni.

foto p.Capitini

C’entrano invece gli orecchioni che m’avevano preso non so se a sei o sette anni. Non posso essere preciso né sull’età né sulla malattia, ma a quell’età l’orologio e il calendario contano davvero poco. Ricordo comunque che stavo male. Non era ancora il tempo odierno delle corse in ospedale o del pediatra. Stavi male? Allora te ne stavi a letto, ti beccavi il brodino di pollo e il pane con il prosciutto fatto a dadini piccoli e prima o poi ti sarebbe passato. Ancora oggi se mi sento un po’ di febbre sono convinto che un etto di prosciutto farà meglio della tachipirina e della vigile attesa.

Per farmi uscire dallo stato di malato dolorante alla mamma venne in mente di dirmi che il signor Esposito aveva promesso che se avessi smesso di lamentarmi mi avrebbe portato a Perugia con il treno. Sulla locomotiva. Quella vera. Elon mask non era ancora neppure nella mente di dio e con lui i viaggi spaziali per cui l’idea di un viaggio in locomotiva era il massimo dell’avventura possibile. Solo l’aereo l’avrebbe potuta battere ma si sa che con l’aereo si andava solo in America e io in America non conoscevo nessuno. La locomotiva mi guarì di colpo e il signor Esposito mantenne la parola. Alla stazione di Falconara Marittima. Binario 1, l’accelerato per …segue lista di tutti i paesini più minuti da lì a Foligno, arrivò frenando con uno stridio nervoso e paralizzante. Corsi verso la locomotiva che indifferente mi parava il culo fisandomi con quei due faretti bianchi piccoli piccoli. Era una fantastica E 636. Marrone, piena di bulloni e quadrata come una scatola di scarpe. La porta si aprì e il signor Esposito in tutta la sua onnipotenza mi fece salire.

Falconara M.ma – la linea adriatica (foto p.Capitini)

Credo di aver iniziato a fischiare a Villanova e smesso ad Albacina, ma non sono proprio sicuro. Ho anche toccato una leva color ottone che faceva andare più forte il treno. Ero Dio, ma si può essere Dio una volta sola. Non mi ammalai più, il signor Esposito continuò a fare il macchinista e a dormire di giorno e io non guidai mai più un treno. Fui declassato a semplice passeggero, anche se essere un passeggero tra gli anni ’70 e i 90 non era una faccenda per tutti. Poteva essere considerato quasi un mestiere, con i suoi trucchi e le sue astuzie che andavano sviluppati con il tempo e decine di viaggi di pratica.

Innanzi tutto il vagone, ce n’erano di tanti tipi e se ti capitava quello sfigato erano davvero dolori ma almeno tutti i treni avevano gli scompartimenti, niente a che vedere con quell’ibrido tra il pullmann della ACOTRAL e un aereo che sono oggi “Italo” e “Freccia Rossa” Lo scompartimento era una sorta di salotto di casa, isolato, e animato da un microcosmo di umanità variamente assortita che ad ogni fermata si offriva ai nuovi passeggeri secondo un galateo consolidato.

Finché durò devo dire che prendere il treno mi piaceva, poi, come in una cansone di Branduardi, venne il trolley che cancellò la valigia pesante e nessuna signora larga di fianchi e dalle enormi tette avrebbe più avuto bisogno di un “giovinotto” che le desse una mano a issarla sul portabagagli. Dopo il trolley venne l’aria condizionata che cancellò i finestrini aperti e le tendine svolazzanti color di nicotina e anche l’avviso “Do not lean out from the window” perse ogni importanza. Quindi venne lo smarthphone che cancellò la parola e lo “…scusi l’ha letto? Dispiace se do un’occhiata?” che ti permetteva di spaziare tra il Corriere della Sera, la Gazzetta dello Sport e l’Unità. A ben pensarci anche l’Unità è scomparsa. Venne infine il divieto di fumo prima negli scompartimenti, poi nei corridoi, infine anche nel passaggio tra le carrozze e davanti ai bagni. Conosco solo un posto dove ancora è possibile avvistare ansiosi tabagisti impenitenti con venature d’isteria. E’ la stazione di Firenze Santa Maria Novella.

(foto p.Capitini)

Là il treno per Bologna e Milano deve cambiare il verso della motrice e quindi si hanno quei dieci minuti per fumarsi di tutto. E’là che ho compreso che la democrazia e la solidarietà umana hanno ancora una speranza. E’ là, sul binario sudicio della stazione dove direttori di banca chiedono una sigaretta a disoccupati cenciosi, donne in pelliccia si chinano su accendini Bic stretti da mani da manovale che ben più volentieri avrebbero stretto le loro chiappe. Tra i sanculotti della ribellione contro la dittatura salutista passano sguardi d’intesa e di gratitudine che neppure gli affiliati alla “Giovine Italia” si permisero mai.

Su questo rimasuglio di umanità solidale si è infine abbattuta la IQOS, la solitaria sigaretta elettronica sexy come una bambola di gomma.

E’ così che l’alta velocità pian piano ha cancellato l’alta umanità, quella che per innamorarsi aveva bisogno del pudore di uno scompartimento.

I GATTI NON SE NE SONO MAI ANDATI – racconto breve di una deviazione in Appennino

(foto p.Capitini)

Prima dei tunnel e dei viadotti e prima del “traffico intenso tra Roncobilaccio e Barberino del Mugello” l’Appennino non si attraversava; lo si saliva.

Con fatica, nella stagione giusta e per un motivo importante si salivano i suoi sentieri e quando si da lassù si scendeva si era grati per avercela fatta.

Al tempo degli uomini, quello che precedette l’attuale tempo degli individui, le scarpe e gli zoccoli ben conoscevano gli stradoni partoriti dalle mura delle facili città di pianura. Sapevano dei fontanili e di dove iniziavano le mulattiere; quali passi erano aperti e quali la neve aveva già chiuso.

Tra le montagne, dove la luce fugge veloce, il cammino sarebbe durato fino a che la coperta d’ombra non avesse avvolto il sentiero. Poi si sarebbero accesi i fuochi e disposte le guardie. Per le carrozze ci sarebbe stata una locanda, una minestra e una stalla di pietra per riparare le bestie.

(foto p.Capitini)

Sulle quelle cime scure di roccia e prati, una goccia di pioggia e le lacrime sciolte del ghiaccio di primavera ancora oggi scelgono il proprio mare, scivolando sull’erba gialla resuscitata dalla neve, rimbalzando prima sull’arenaria dei prati alti e poi sui sassi bianchi e rotondi del Panaro oppure del Reno.

Se le gocce si sceglievano un mare e i piedi erano obbligati al sentiero allora, nel mio viaggio verso casa, avrei potuto uscire dal ragionevole obbligo dell’autostrada e tentare anche io di scegliere il mio.

Provare a trovare una pista per salire e un’altra per discendere. Piste tutte sconosciute, strade di un viaggio vero, quello dove ricordo e memoria non t’aiutano e la sorpresa ti siede a fianco, muta.

(foto p.Capitini)

C’è vento. Forte, freddo e profumato di erba.

Sopra di me il cielo continua a sfogliare un infinito campionario di nuvole, indeciso se annegarmi o regalarmi un po’ di sole. La strada è lucida di pioggia e di foglie. Un raggio di sole inaspettato fa brillare per un tempo di sorpresa minuscoli paesini conficcati sui fianchi della montagna o incagliati giù, all’ansa del torrente.

Sono stati affidati a una Madonna o a un Santo nella certezza che almeno loro li avrebbero protetti dalla montagna e dalle notti fredde di lupi.

(foto p.Capitini)

Sono stati pochi gli uomini che nel tempo hanno chiamato questi luoghi “casa“. I più sono passati in fretta nel fondovalle, seguendo i fiumi e risalendo i passi, diretti a Roma o alla grande pianura che si apre ancora oltre la linea delle cascate. In pochi si sono fermati, ma quei pochi l’hanno fatto per secoli, posseduti da una tenacia avara, figlia della fatica e dalla miseria.

Nei paesi affidati alle Madonne, avevano resistito a principi e vescovi, sopravvivendo a invasori sconosciuti, a guerre di cui non sapevano nulla e a carestie di cui invece sapevano tutto; aggrappati a quei monti gonfi come la pasta del pane.

(foto p.Capitini)

Poi l’Italia, un paese che in molti non avevano mai conosciuto, s’era scoperta ricca e moderna. Al di là delle nebbie il fondovalle a tutti sembrò ancora più ricco. E li inghiottì.

Erano scesi dai loro paesini affidati alla Madonna, migrando verso officine, ascensori e notti piene di neon e asfalto; notti senza più lupi e bufere. Notti senza più silenzio e rosicchiare di tarli.

Da boscaioli, carbonai, pastori, falegnami e fabbri, l’acqua calda e un water smaltato bianco li trasformò in operai. Il partito diede loro anche un’altra fede, battezzandoli classa operaia. Fu allora, sul finire degli anni ’50 che le Madonne, offese, si ritirarono nei loro paesi a custodire usci sempre chiusi.

Negli anni ’70 i figli dei boscaioli divenuti operai e quindi classe operaia furono mandati in buon ordine alle università dove si diventava “dottore“, titolo che li avrebbe per sempre salvati da un possibile ritorno tra quei monti ormai all’orizzonte. I loro padri, vent’anni prima s’erano accontentati di vedere il mare.

(foto p.Capitini)

Oggi, che la classe operaia è morta e che i “dottori” non risalgono i monti ma fuggono all’estero guido piano per strade dimenticate. Ripasso per quei luoghi e il monte restituisce le loro storie scritte sulla pietra, con un inchiostro di fede e paura. Mostro gentile l’Appennino e le sue Madonne che custodiscono con cura i ricordi di quella gente. Chissà, un giorno smetteranno di fare tunnel e viadotti e gli uomini ritorneranno. I lupi sono già tornati.

Credo che i gatti non se ne siano mai andati.