GUERRA RUSSO-UCRAINA:primo anniversario (terza parte)

Il terzo e ultimo articolo dedicato al primo anniversario dell’operazione militare speciale punta a mettere in evidenza quali sono finora i principali elementi di novità emersi dal conflitto.

La storia” – diceva Antonio Gramsci – “insegna, ma purtroppo non ha scolari”, figurarsi la cronaca come quella che con grande difficoltà si tenta giorno per giorno di costruire attorno al conflitto russo-ucraino. Eppure, ad un anno dall’inizio di questa guerra insensata, già emergono elementi che ci inducono a pensare a questa non come a una delle tante guerre combattute da quando, agli inizi degli anni ‘90 si immaginò l’avvento della pace universale e la fine della storia, ma ad un evento nuovo e in un certo senso dirimente.  Alcuni di questi elementi sono evidenti, altri si nascondono così tanto nella confusione del quotidiano da celare quei semi destinati a dischiudersi in un futuro neppure troppo lontano.

Se allora nulla ci è stato ancora insegnato, il conflitto russo-ucraino illumina tuttavia di una luce scomoda molti temi del nostro presente. Iniziamo da un primo scelto a caso tra i tanti: l’ONU. Che fine ha fatto quell’istituzione senza la quale, solo venti anni fa, non era possibile muovere un passo? Dove sono finite le riunioni d’urgenza del Consiglio di Sicurezza, le risoluzioni, i caschi blu, le provette agitate in faccia al mondo per aver uno straccio di pretesto per una guerra? Che fine ha fatto insomma tutto l’armamentario di un mondo globalizzato creduto pacificato? Semplicemente è scomparso da quando il 24 febbraio, uno degli Stati originari dell’ONU, membro permanente del Consiglio di Sicurezza e dotato di diritto di veto ha invaso un suo vicino.

New York – Palazzo di Vetro: la sala dell’assemblea generale delle Nazioni Unite

Era la notte di capodanno del 1942 quando Maksim Litvinov firmò per l’URSS la Dichiarazione delle Nazioni Unite che si sarebbe trasformata nello Statuto dell’Organizzazione. Qui, all’articolo 2, comma 4 anche l’URSS di Stalin aveva concordato sul principio secondo il quale” … i membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi stato…”. Ottant’anni dopo, i cingoli dei carri russi incolonnati sulle scalcinate autostrade ucraine hanno impresso la parola FINE non solo su questo principio, ma anche su quel mondo che dalla fine del secondo conflitto mondiale per decenni ci si era ostinati a credere immutato. E’ dunque questo il primo degli elementi portati a galla dall’operazione militare speciale di Putin: che destino avrà l’ONU, riprenderà ad essere l’unica assise mondiale ove confrontarsi oppure verrà declassato a una sorta di coordinamento per la soluzione di questioni minori, come – ad esempio – il commercio del grano dai porti ucraini?

Un secondo elemento riguarda il sistema della globalizzazione. Almeno quello che abbiamo conosciuto finora. La pandemia di covid 19 prima e la guerra oggi hanno incrinato l’idea della Cina come fabbrica del mondo, della produzione a basso costo, delle catene logistiche infinite, della delocalizzazione ad ogni costo, dell’interconnessione energetica, del mondo come mercato globale e non come luogo della competizione politico-economica tra stati.

nave porta-container cinese della compagnia MSC

Il covid 19 e i carri con la “Z” sulle torrette hanno messo il mondo, almeno quello occidentale, di fronte all’evidenza che non tutto può essere decentrato, ottimizzato, delegato e dislocato; in altri termini che il mercato globale non ha sostituito lo stato-nazione, almeno per ora. Siamo dunque tornati all’autarchia e al sacro egoismo di Salandra? Certamente no, ma la consapevolezza che i mercati mondiali e l’intero sistema di approvvigionamento e produzione vadano rivisti è ormai all’ordine del giorno di quasi tutti i governi.

A corollario di una globalizzazione rivedibile appare inoltre sempre più chiaramente che la visione che il mondo occidentale ha del resto del pianeta è sempre più scollegata dalla realtà. Anche se il western front continua a comportarsi come se il resto del mondo non esistesse è sempre più difficile ignorare come questo stia iniziando a percorrere strade diverse e indipendenti da quelle volute e talvolta imposte da noi. Una prova? Basta tornare all’ONU cui si è accennato in apertura per scoprire che se è vero che oltre 180 paesi avevano condannato l’aggressione russa all’Ucraina tra quei pochi che si erano astenuti c’erano colossi demografici ed economici come India, Pakistan e non certo ultima la Cina. Lo stesso piano di pace di Pechino è un ulteriore voce di avvertimento rivolta all’Occidente per dire che una parte dell’umanità ha ambizioni e sogni diversi di quelli pensati a Washington o a Parigi. Se infine si avesse bisogno di ulteriori prove basterebbe rivolgersi alle sanzioni economiche adottate contro la Russia. E’ evidente che queste sono solo le sanzioni che l’Occidente ha adottato contro Mosca. Il resto del mondo o le ha ignorate oppure ha trovato il modo di aggirarle. In altri termini siamo noi ad essere oggi sotto sanzioni.

In questa deriva dei continenti messa in moto dalla guerra russo-ucraina che posto ha l’Europa? Per comprenderlo è sufficiente ricordare cosa abbia significato per l’Europa o parte di essa scoprirsi dipendente da un unico fornitore d’energia quando questi diventa improvvisamente IL NEMICO.

il gasdotto north tream che univa la Russia alla Germania

La corsa a diversificare è stata immediata, confusa e non sempre conveniente per gli stati Europei, specie quelli dell’Unione, acquistando a maggior prezzo e sotto condizioni peggiori l’energia indispensabile a sostenere quello che pur sempre rimane uno dei maggiori poli produttivi mondiali.

Come ogni emergenza è stata infatti improvvisa e devastante, ma non per tutti. Almeno non per il nostro maggiore alleato, la potenza che da ottant’anni garantisce la sicurezza, la libertà e lo stile di vita europeo. In uno dei suoi primi discorsi Putin aveva indicato proprio nella divergenza d’interessi tra Europa e Stati Uniti uno degli elementi di incongruenza dell’asse anti-Mosca. E non aveva tutti i torti. Senza voler analizzare caso per caso e settore per settore le divergenze inter-atlantiche tutt’ora in atto, basti ricordare che gli Stati Uniti, per la loro storia, potenza economica e militare, posizione geografica e visione strategica sono un impero e come tale agiscono. L’Unione Europea – ammesso che essa esista al di là di una moneta e di un mercato comuni – semplicemente non lo è. Anzi, non è neppure un’unione politica e tanto meno una potenza militare.

In tempi di bonaccia questo semplice fatto è stato annacquato dal tempo, dalla lentezza della storia e dal felpato linguaggio diplomatico, ma da quando l’orso russo è uscito dalla tana ha preso a soffiare area di tempesta e ai governi europei non è restato altro da fare che aggrapparsi alle traballanti assicelle dei loro interessi nazionali e della scarsa rilevanza internazionale. Ecco allora il terzo elemento; l’Unione Europea. Quale futuro potrà avere un’istituzione incapace di esprimere una politica comune, la quale deve bilanciare interessi e bisogni diversissimi e che non è mai stata pensata come un vero e proprio stato? Si tornerà alla vecchia Comunità Economica Europea pre-Maastricht  o si farà un passo in avanti?

la presidente della Commissione Europea Ursula Von der Lien

Rimaniamo per un secondo nell’Unione per iniziare a parlare di eserciti e di difesa solo per chiarire che nelle attuali condizioni parlare di difesa europea è pura fantascienza. Occorre ricordarlo a quanti vanno auspicando l’esercito europeo, dimenticando che un esercito, in ogni tempo e in ogni luogo, difende un popolo, una politica e un territorio. In assenza di uno stato europeo e della sua politica è dunque inutile pensare a un esercito europeo.

In che modo allora la guerra russo-ucraina ci costringe a parlare di eserciti e di guerra? Ecco il quarto elemento di riflessione: la guerra. Non tanto le immagini quanto le azioni conseguenti alla campagna in corso in Ucraina hanno disvelato una semplice verità. In Europa occidentale il concetto stesso di guerra è stato rimosso. Non esiste. Certo dopo le distruzioni e gli orrori della prima e soprattutto della seconda guerra mondiale abbiamo tutti delle ottime ragioni per voler rimuovere l’idea stessa della guerra. Il fatto però che l’Europa non pensi più alla guerra non significa che altri paesi o alleanze di paesi, lontani dal nostro percorso culturale e di sofferenza, non solo ci pensino ancora, ma vedano questa nostra penisola dell’immenso continente euro-asiatico come possibile obiettivo. Se dunque la guerra, gioco forza, dovrà prima o poi rientrare negli argomenti di cui prendersi cura, in che modo e sotto quali aspetti si potrà manifestare.

militari italiani in missione di pace in Libano

In ogni libro di arte militare si afferma che ogni guerra è un evento del tutto nuovo inizialmente pianificato, organizzato e combattuto con la mentalità e le conoscenze della guerra precedente. Quando nel 1989 scoppiò la pace universale l’entusiasmo generale fece dimenticare la guerra come sforzo totale di una nazione o di un’alleanza contro un’altra. La guerra convenzionale, quella dei bombardieri; dei carri armati a centinaia dilaganti nelle pianure del centro Europa; delle divisioni corazzate, dell’artiglieria e dei missili furono considerati ormai armamentario da “guerra fredda”.

Dagli anni ’90 in avanti si è aperta l’epoca delle operazioni di pace. Peacekeeping, peace enforcing, Other-than-war operations erano i nomi e i volti della nuova guerra. Si difendevano gli oppressi oppure si esportava la democrazia. Erano gli anni della guerra totale al terrorismo e della guerra preventiva come l’aveva definita la dottrina Bush dipingendo scenari da Minority Report.

Oggi Mariupol, Backmut e i missili balistici sulle città dell’Ucraina ci hanno detto che la guerra, quella classica o convenzionale ad alta intensità come viene definita esiste, è in buona salute e per giunta ha scelto proprio l’Europa per manifestarsi.

Peccato che nel frattempo tutta Europa, convinta che mai e poi mai si sarebbe di nuovo presentato un conflitto ad alta intensità e lunga durata, avesse deciso di mettere anemizzare il proprio potenziale militare. Eserciti sempre più piccoli, costituiti unicamente da personale professionistico, armati giusto quello che bastava per presidiare qualche strada nel mezzo dell’Afghanistan o far la guardia davanti alla casa di qualche personalità. Questa era stata la scelta dell’Europa in tutte le sue declinazioni. Poi il 24 febbraio scorso è scoppiata una guerra brutale e violentissima che in pochi mesi ha consumato quasi tutto l’esercito professionale della Federazione russa, obbligando lo stesso Putin e il suo governo a indire la mobilitazione parziale di 450.000 coscritti, riesumando il vecchio e polveroso concetto della “nazione in armi”.

Ecco quindi un’ulteriore questione che il vento dell’est sta spingendo sui tavoli dei nostri governi: gli attuali modelli di difesa, i mezzi assegnati, gli stanziamenti, le missioni assegnabili sono ancora validi e coerenti oppure occorrerà ripensarli? Il quesito ne sottende un altro ancor più inconfessabile e che riguarda non tanto la capacità quanto la volontà delle nostre popolazioni di battersi con il ferro e con il sangue per i valori che a parole difendono senza esitazioni. Esiste ancora in Europa occidentale qualcosa per cui valga la pena mettere in gioco la propria vita? Prima del 24 febbraio 2022 la domanda sarebbe stata ammessa al massimo a un raduno di combattenti e reduci ottuagenari; oggi invece suona inquietante e pertinente.  Scendiamo infine di livello per osservare anche il modo di combattere.

La seconda guerra mondiale e molte di quelle successive avevano dimostrato che la guerra avrebbe per sempre preso le forme di una guerra manovrata oppure di una guerriglia. Le trincee, il filo spinato, i rifugi, la terra-di-nessuno erano stati un accidente della storia; una sorpresa.

A dire la verità qualche eccezione si era avuta, come ad esempio durante il conflitto tra l’Iran degli Ayatollah e l’Iraq di Saddam, ma in generale alla prima guerra mondiale nessuno aveva più pensato. Manovra, movimento, conquista degli spazi erano state le parole d’ordine attorno alle quali progettare e realizzare carri armati, elicotteri d’attacco, cacciabombardieri, missili e così via. Poi sugli oltre 500 chilometri dell’immobile fronte tra Donbas e Ucraina meridionale erano spuntate le trincee di prima linea, quelle di seconda, i camminamenti e i rifugi. E l’artiglieria; tanta e onnipresente. Il fuoco incessante dell’artiglieria ha ripotato alla memoria luoghi come Verdun o La Somme e parole come materialschlacht sepolte da cent’anni insieme a von Falkenhayn. E’ dunque tempo per gli Stati Maggiori di pensare che la guerra di posizione esiste ancora?

Lascio per ultimo un elemento che è sempre presente in ogni tipo di guerra combattuta fino ad ora: l’apparire di mezzi nuovi o dell’impiego nuovo di mezzi conosciuti. Malgrado la primordiale barbarie dei combattimenti corpo-a-corpo quella russo-ucraina è anche la guerra dei droni che siano volanti o sotto forma di barca. I droni, che siano ipertecnologici o commerciali da poche centinaia di euro stanno cambiando la percezione stessa dei combattimenti.

drone turco Bayraktar 182

Non solo combattere ma vivere sentendosi permanentemente osservati, sotto il perenne pericolo di essere individuati o colpiti da qualche ronzante aggeggio è un elemento nuovo di questa guerra. Queste apparecchiature a basso costo, facili da utilizzare e in grado di osservare e colpire a distanza senza esporre alla rappresaglia nemica saranno il futuro? Dovremo forse pensare ad aerei senza pilota e carri armati senza equipaggio? A prima vista verrebbe da rispondere: “si”, aggiungendo anche un “magari”. Ma cosa succederà alla guerra se la si priva di uno dei suoi fattori di autoregolazione: l’orrore e la paura? Rimane la trasformazione in un videogioco letale in cui una parte è in grado di infliggere reali dolore e sofferenza all’altra senza esserne a sua volta coinvolta. È la premessa della guerra infinita.  L’idea che uomini in carne e ossa si affrontino sul campo è certo qualcosa di brutale e bestiale, ma nello stesso tempo tiene entrambi i contendenti legati alla propria umanità e li avvicina prima o poi al punto di rottura, superato il quale non si combatte più. In assenza di questo uccidere diventa un mestiere come un altro e il ‘900 al riguardo ha già fornito esempi più che sufficienti.

Elon Musk , proprietario del sistema Starlink

E’ questo anche il conflitto dove a dei privati, vedi ad esempio il magnate Elon Musk con il suo sistema Starlink la costellazione di satelliti di proprietà del cinquantenne miliardario sudafricano di cittadinanza canadese che consente l’accesso a internet satellitare globale in banda larga a bassa latenza. È a questo sistema che si appoggia gran parte della rete informativa e di comunicazione di Kiev, ma questo sarebbe il meno. L’eccezione o per lo meno la novità è che per la prima volta un imprenditore privato si appalta l’onere di fornire un servizio essenziale ad uno dei contendenti, prerogativa finora di esclusiva competenza degli stati. Cosa succederebbe infatti per ragioni personali, magari solo per questione di profitto o di cattiva pubblicità Musk decidesse di spegnere starlink? Oppure chi potrebbe impedirgli di fornire il servizio chiavi in mano a qualunque stato in grado di pagarlo senza andare a vedere di che regime si tratti. Il tema è quindi dell’ingresso prepotente dei privati in un fenomeno essenzialmente pubblico come la guerra e in tale contesto vanno intese anche le compagnie di mercenari come il gruppo Wagner e le altre che si sono appaltate una fetta di guerra.

Non sono dunque pochi gli elementi di novità. Molti saranno ancora sepolti nel fango e nella neve delle steppe ucraine ma c’è da star sicuri che prima o poi verranno a galla. Basta attendere.

Pierre Sautreuil: “Le guerre perdute di Jurj Beljaev” Einaudi editore.

E’ qualche mese che non vi segnalo nulla di buono, non perché non sia uscito ma perché non ho avuto tempo e modo di leggere. Faccio un eccezione per questo “Le guerre perdute di Jurij Beljiaev” un racconto-reportage di un giovanissimo corrispondente francese de La Croix. Vi porterà dopo poche righe nell’atmosfera del Donbas in guerra ormai da nove anni, tra i cumuli di foglie secche utilizzati per illuminare le strade di Donetz e tra personaggi felliniani e crudeli che sfruttano la guerra e la morte per sopravvivere. Cosigliato.

Pierre Sautreuil: “Le guerre perdute di Jurj Beljaev” ed Einaudi.

Ucraina: su che carro salire?

Solo un anno fa in pochi avrebbero scommesso non solo sull’incredibile resistenza dell’esercito e dell’intero popolo ucraino, ma addirittura sulla loro capacità di reazione. L’operazione militare speciale di Putin, nata con l’intento di sovvertire in pochi giorni il governo ucraino, sebbene sottodimensionata agli scopi e ai tempi d’una vera invasione, aveva comunque colto l’esercito ucraino non al meglio delle proprie capacità operative.

Problemi di mobilitazione di ingenti numeri di militari; scarsa disponibilità di armamento e di equipaggiamenti e difetti nell’addestramento del personale sembravano segnare il destino di Kiev e invece, giorno dopo giorno, i fatti hanno provveduto a smentire il pronostico. Tuttavia, in guerra non esistono miracoli e neppure quello compiuto dall’esercito azzurro-oro lo è stato. Si è trattato al contrario di un sorprendente e sapiente uso delle risorse a disposizione; pianificate, coordinate e impiegate nel migliore dei modi. Il prezzo da pagare è stato comunque alto, molto alto; sia in termini di vite umane sia di materiali.Focalizziamo l’attenzione su quest’ultimo aspetto e in particolare sugli armamenti pesanti; vale a dire i carri armati, i veicoli per il trasporto e il combattimento per la fanteria e i pezzi d’artiglieria. All’inizio del conflitto per l’esercito ucraino, come per quello russo, tutto questo usciva dai depositi e dagli arsenali ex-sovietici.

un T 64 di produzione ex-sovietica

Si parla dei carri armati T64 e T72, dei veicoli BMP 1 e 2, dei BTR 90 e via così. Materiali a bassa tecnologia, rustici, economici, pensati e costruiti in previsione di una possibile guerra ad alta intensità nel centro dell’Europa contro il nemico di sempre: la NATO.

Un BMP 2 – veicolo trasporto e combattimento per fanteria di produzione ex-sovietica

Gli eventi che seguirono la caduta dell’URSS e del muro di Berlino sono noti a tutti. Nulla o quasi di quel mondo è sopravvissuto, a meno dei mezzi e delle armi pensate per combattere. Qui è bene porre attenzione a una prima differenza tra l’esercito della Federazione russa e quello di Kiev. All’inizio della guerra, così come in gran parte anche ai giorni d’oggi, Mosca poteva contare su uno sterminato arsenale di mezzi e munizioni accantonati in previsione di un conflitto che, per fortuna non ci fu. E’ da quei parchi perduti oltre gli Urali che sono arrivati i T64, i BRDM, i vecchi camion ZIL e i BMP che avremmo visto in gran numero incendiati e distrutti ai bordi delle fangose strade ucraine. Pur se costituito sulle stesse macchine, il parco veicoli da combattimento dell’esercito ucraino non poteva certo disporre di questo pozzo senza fondo di scorte. E non solo. Affascinati dal potere distruttivo dei javelin e dei droni anticarro switchblade ci siamo infatti dimenticati della terribile usura imposta dal combattimento a tutti i veicoli, russi o ucraini che fossero.

Obice semovente 2S1 Gvodzika di produzione russa

E’ infatti indubitabile come nei mesi di guerra Mosca abbia sofferto terribili perdite anche in termini di materiali, ma mentre l’esercito russo poteva attingere ad un magazzino quasi infinito, Kiev sapeva che ogni singolo carro perso, ogni blindato andato in fiamme, ogni obice colpito dalla controbatteria difficilmente sarebbe stato sostituito. Questa semplice costatazione a Mosca si è trasformata in una precisa strategia di guerra: in mancanza di significativi avanzamenti sul terreno sarebbe stato necessario infliggere a Kiev perdite materiali tali da compromettere la volontà e la capacità di sostegno e di alimentazione che nel frattempo il campo occidentale era stato in grado di sviluppare. Insomma,obbligare Kiev a bruciare molta più legna di quanto riusciva a tagliare.

La domanda non posta era infatti fino a quando l’Occidente sarebbe stato in grado di alimentare lo sforzo ucraino? Quali costi finanziari e di materiali sarebbe stato disposto a pagare? Sulla risposta a queste due domande Mosca aveva basato gran parte della sua strategia di guerra; vale a dire tirarla tanto per le lunghe fino al punto di costringere l’occidente a “staccare la spina” al suo alleato sotto attacco.In questa prospettiva per Mosca ogni carro consumato era un carro guadagnato.

Da parte occidentale la risposta inziale , in gran parte inattesa, era stata di “sollecitare” i nuovi membri della NATO, un tempo appartenenti al patto di Varsavia, a cedere all’Ucraina gran parte del loro parco veicoli di fabbricazione ex-sovietica.
Paesi come Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, tutti i paesi baltici ma anche Bulgaria, Romania e persino una recalcitrante Ungheria avevano quindi provveduto a rimpinguare l’arsenale di Kiev con i loro vecchi mezzi dalla stella rossa. Non era però bastato. Così si era deciso di acquistarli in giro per il mondo ad esempio da India, Marocco, paesi arabi vari e persino da Cipro.

Tuttavia le necessità di approvigionamento imposte da questa guerra non erano e non sono tutt’ora sufficienti a coprire le esigenze quotidiane di consumo e a questo punto si arriva alla questione dei carri occidentali. Dopo un anno di guerra trovare carri, pezzi di artiglieria, veicoli da trasporto di derivazione ex-sovietica è diventato molto, molto difficile. L’unico posto dove reperire altri carri armati erano quindi gli arsenali e i depositi dei paesi occidentali, in primo luogo quelli americani. Qui però la faccenda si complica.

carro armato britannico Challenger

Già all’inizio dell’estate era apparso chiaro che continuare a supportare Kiev avrebbe significato attingere alle dotazioni e alle scorte degli eserciti dell’Alleanza. Non sarebbe stata dunque la NATO a consegnare alcunché, ma ogni singolo paese avrebbe dovuto decidere se e cosa dare a Kiev e in che tempi. La prospettiva di dover cedere parte dei propri costosissimi e rari assetti da combattimento ha scatenato all’interno di ogni paese una forte e motivata discussione. Non si trattava infatti solo di una scelta di tipo etico sulla giustizia o meno di fornire armi pesanti con cui proseguire la guerra, ma anche valutare che impatto una simile decisione avrebbe potuto avere non tanto sui rapporti presenti con Mosca, già abbastanza compromessi, ma soprattutto per il futuro. Infine si trattava di valuitare con attenzione l’effetto che la fornitura di carri armati avrebbe sortito sull’opinione pubblica di ognuno, vale a dire sull’elettorato.

Accanto a queste che possono essere considerate comuni preoccupazioni, per alcuni paesi in particolare valgono anche considerazioni di politica industriale. E’ questo il caso della Germania dove la Rheinmetall produce il celebre Leopard 2. A livello mondiale questo carro è il naturale competitor dell’americano Abrams, del francese Leclerc e del britannico Challenger ed è un leader nel mercato mondiale.

carro Leopard 2 dell’esercito tedesco

A Berlino qualcuno ha pensato che consegnare la flotta di Leopard 2 all’Ucraina avrebbe anche potuto significare aprire un buco presto forse non più riempito da altri Leopard 2 ma, perché no, da Abrams statunitensi o addirittura, da K2 Black Panther coreani. Nel momento in cui Polonia, Spagna e gli altri 23 paesi che sono attualmente equipaggiati con Leopard 2 avessero ceduto i loro carri all’Ucraina che garanzia avrebbe mai avuto la Germania di mantenere la propria quota sul mercato dei carri? Il dubbio ha imposto quindi prudenza nel liberare questi paesi dai vincoli contrattuali che li legano a Berlino e alla Rheinmetall.

Esiste poi il problema di quale versione consegnare. Tra un Leopard 2 A1 e una versione A6 corrono infatti enormi differenze tecnologiche che equivalgono a enormi segreti industriali e altrettanti enormi problemi di gestione logistica. La prospettiva del retro-engineering, vale a dire della possibilità che una volta catturato dai russi uno di questi carri sarebbe stato smontato e copiato bullone per bullone era ed è più che concreta e anche questo aspetto impone prudenza.

Infine, c’è la possibilità che una volta schierati nelle pianure ucraine i Leopard 2 possano performare male, vale a dire fare una brutta figura. Che impatto avrebbe infatti sul mercato mondiale l’eventuale distruzione di questi costosissimi carri da parte di uno scalcinato sistema controcarro russo? Perché – potrebbero chiedersi molti governi – pagare così tanto per un carro che, dopo tutto, va a fuoco come qualsiasi altro? Era già successo in Siria quando una quindicina di Leopard 2 dell’esercito turco erano andati in fiamme esattamente come tutti gli altri.

Se esuliamo dall’ambito tecnico e si entra in quello politico viene infine da chiedersi se l’occidente voglia davvero dotare Kiev di una forza in grado di sovvertire le sorti della guerra. Finora sia Biden, sia gli altri leader occidentali hanno giustamente sostenuto il sacrosanto diritto di Kiev a difendersi dall’aggressore. Tuttavia, difendersi è una cosa e vincere un’altra. Si è disposti a sostenere un’offensiva ucraina ad esempio contro la Crimea? E come comportarsi se una puntata offensiva di qualche unità corazzata ucraina decidesse di attraversare il confine russo?

Per evitare ogni rischio è bastato rispondere a Zelensky, il quale chiedeva con urgenza 7-800 carri per vincere, che gli sarebbero stati consegnati circa 200 carri per difendersi, Quando? Con comodo a partire dal maggio di quest’anno per concludere le consegne entro il prossimo anno. Non dimentichiamo infatti che anche quando sostiene valori universali, come il diritto di un popolo di difendersi da un’aggressione, la politica rimane il regno del possibile e del conveniente.