JE SUIS CHARLIE -ricordi di una brutta giornata

Lille – grand place particolare (foto p.Capitini)

Je suis Charlie”.

Sull’onda della costernazione planetaria stamattina sono uscito per Lille spingendomi poi verso Villeneuve d’Ascq, Marcq- en-Baroeul, Hellemmes. Comuni della cintura post-industriale di Lille, appiattiti dalla crisi e occupati da migliaia e migliaia di francesi che se cgli chiedi chi sei ti rispondono “Je suis Saleh” o “nous sommes Mohamed et Fathima”.

(foto p.Capitini)

Su queste strade di periferia, del tutto simili a quelle da cui sono usciti i tre assassini di Parigi, non c’è traccia evidente dell’esecrazione mondiale. Sui muri solo qualche sparuta scritta per di più inneggiante ai LOSC, la squadra di calcio locale. Gente che esce per la spesa, donne in chador, ragazzini biondi dai capelli bagnati, ragazze un po’ abbondanti sui fianchi. Tutto come al solito. Nessun manifesto, nessun striscione, nessuna irriverente bomboletta.

(foto p.Capitini)

Sulle facciate dei municipi invece lo striscione c’é, così come ci sono i poster a rullo lungo la strada, se hai la pazienza si aspettare dopo quello sui saldi a McArthur&Glenn di Roubauix. Anche sulla Grand Place di Lille dove ancora gira la ruota di natale, non c’è niente. In ogni caso domani a Parigi c’è la super manifestazione in cui interverranno tutti, ma proprio tutti.

Naturalmente in prima fila il presidente Hollande, mano nella mano con Sarkozy, Angela Merkel, Mariano Rajoy ed ovviamente il Matteo nazionale. Sono tutti diventati Charlie. Spero di vedere presto i François, le Cecille,gli Xavier o gli Alain, insomma la gente comune, quella che oggi sembrava vivere da un’altra parte. A che serve la libertà di espressione se poi non ci si esprime? D’altra parte sono appena iniziati i saldi.

Il Signor Conte

Il Presidente del Consiglio dei ministri Avv. Prof. Giuseppe Conte (foto Web)

27 aprile 2020

Ieri sera, insieme a due uova al tegamino e un po’ d’insalata, ero davanti alla TV in trepidante attesa dell’ennesimo annuncio di Giuseppi&Co. Mi sentivo come un carcerato in attesa di amnistia. Ma l’amnistia non c’è stata. Quello che io, le uova e l’insalata abbiamo capito è stata invece la confusione che Giuseppi&Co sono riusciti a fare tra linee guida per la ripresa della vita della nazione – che non a caso è singolare – e gestione minuta e dettagliata delle vite dei cittadini – che non a caso sono plurali. Ne risulta un quadro complicatissimo e per larga parte comico. Devi salire su un autobus a posti dimezzati, puoi andare in albergo, ma il caffè te lo fai con la moka che ti sei portato da casa, vai a lavorare, ma i figli li lasci…legati sul terrazzo (visto che come dice Trump i raggi UVA fanno bene e un po’ di disciplina non guasta). Puoi fare un funerale, ma a inviti – solo “distinguished persons”. I comuni attiveranno un servizio di buttafuori per la selezione all’ingresso del camposanto. E poi al museo potrete andare – massa di ignoranti che vi farà anche bene un po’ di cultura – ma alla messa no, perché come cantava Guccini “…Dio è morto…” o se non è morto non si sente poi tanto bene. Potremo andare a trovare zia Adelina, ma solo se si è sposata con Adelmo che abita nel natio borgo selvaggio. Per tua sorella che ha vinto un concorso alle poste e adesso lavora ed è prigioniera a Reggio Emilia non si può. E’ fuori regione, ma verrebbe da dire fuori rAgione.

Mi chiedo – anzi io, le uova e l’insalata ci chiediamo – ma non sarebbe stato più intelligente dare linee-guida per la riapertura? Del tipo “…state lontani tre metri, portate le mascherine e i guanti, entrate due alla volta e misuratevi la temperatura, etc…” e quindi lasciarne l’applicazione pratica a chi quel mestiere o quella realtà vivono nonché il controllo a chi quella stessa realtà sorveglia? Ma la tentazione della micro-dirigenza (si dice anche micro-management, lo so anche io) è stata troppo forte e, come al solito, creerà casino. Al contrario due parole sulla sanità me le sarei aspettate da Giuseppi&Co. E non parlo di mascherine e tute protettive, che faranno parte dei prossimi corredi di nozze. No. Penso invece se si intenderà seguire il modello veneto-tedesco fatto di medici di base, di medicina di prossimità e di rapidi interventi su chi, inevitabilmente, si ammalerà oppure si continuerà con i lazzaretti lombardi, tanto cari al Manzoni e a Fontana? Ci si affiderà ai campi minati di De Luca, a Santa Rosalia, alla secessione sanitaria? Credo che in nome della democrazia e dell’autonomia alla fine ognuno farà come gli pare. Come al solito. Arriveranno quindi occhiuti e pedanti carabinieri a scroccare 300 euro di multa al primo pensionato che passa, come al solito e ancora come al solito morirà qualcuno, ucciso dal virus dell’inefficienza e dell’arroganza e prontamente dichiarato Martire o Eroe. Ho la brutta sensazione che siamo usciti dall’emergenza sanitaria per entrare nel caos organizzativo che ci ricondurrà all’emergenza sanitaria in una fantastica ruota della sfortuna che né io, né le uova vorremo sopportare. In una cosa Giuseppi&Co ha però ragione: lo slogan “Se vuoi bene all’Italia, mantieni le distanze”. Sarebbe il caso che per il bene della nazione iniziasse a farlo.

Seduto in cima a un paracarro…

Una tappa del Giro d’Itala (foto p.Capitini)

Eccomi di nuovo qui. Seduto a bordo strada in un giorno di metà maggio ad aspettare il Giro. Al bar dove ho preso un caffè, la TV era accesa sulla tappa, la quarta: Orbetello-Frascati. 235 km.

Fuori, seduto su un muretto, con i piedi a ciondoloni, qualcuno guarda verso nord. I corridori sono ancora lontanissimi – c’è chi dice a Tuscania, chi a Valentano – ma noi si scruta lo stesso verso nord perché il Giro più che guardarlo lo si aspetta.

Il tempo dell’attesa mi coglie all’ora di pranzo a Sutri, sulla Cassia, una delle strade più antiche del mondo. Mi sono affrettato per non arrivare in ritardo alla mia attesa. Da un paio d’ore l’organizzazione ha chiuso la strada e il silenzio della campagna è subito uscito dal tufo bruno e aspro spandendosi per la campagna. Di tanto in tanto, come un cavallo scosso, passa una macchina della carovana ma non basta a rompere il silenzio. Si attende. Accanto a me una mosca d’un bel verde metallico si avventura sul guscio infranto di un uovo caduto dal suo nido. In alto, cornacchie svolazzano irrequiete, di tanto in tanto infilandosi nel foro di un grosso platano affumicato . Una coccinella si ostina a percorrere l’unica foglia verde di un cespuglio secco. Intanto sul muretto la ragazza tatuata si spara una serie di selfie. Sorrido, in fondo anche lei, come me, aspetta.

D’un tratto le moto della polizia; sirene, clacson e poi le auto delle ammiraglie e in mezzo, quasi nascosti come ciclisti della domenica, ecco i tre fuggitivi. Volano via tra gli applausi che non fanno in tempo a raggiungerli. Cala ora un silenzio teso. Si guarda tutti verso nord. E il gruppo arriva in un fruscio di gomme e di catene ben oliate. Gli uomini senza volto inseguono le loro tre lepri, scivolando sul nostro stupore senza girare la testa. Macchine di carne e nervi calate su macchine d’acciaio e gomma. Due minuti e il carnevale del giro, colorato ed eccessivo, scompare dietro la curva del mitreo. Le cornacchie si posano di nuovo sul ramo e le mosche ritornano al loro uovo. Per quest’anno, il 2019, il Giro ha di nuovo annunciato la primavera anche in questa parte d’Italia. Aspetto il prossimo anno, quando gli uomini-macchina riappariranno chissà su quale strada di questo nostro paese antico e meraviglioso.