IO SO CHE TU SAI CHE IO SO

Salve professor Falken, strano gioco; l’unica mossa vincente è non giocare!” Così rispondeva Joshua, il mostruoso computer del NORAD, a pochi istanti dall’apocalisse nucleare. Il film era “Wargame”, gli anni quelli di Reagan e de “l’impero del male”. Da allora sono trascorsi quasi quarant’anni durante i quali in pochi avranno pensato realistico evocare il fantasma nucleare sull’Europa. L’ha fatto Vladimir Putin, presidente della Federazione russa, alle prese in questi giorni con l’incerto andamento della sua guerra contro l’Ucraina. Il 24 febbraio, un giovedì qualsiasi è arrivata infatti la guerra; quella vera. La paura di un nuovo conflitto mondiale, l’inverno nucleare, la possibilità di una prossima fine del mondo hanno interrotto la zuffa epidemica alla quale, dobbiamo confessarcelo, c’eravamo anche abituati. Ma se ci si ferma a riflettere scopriremo che, paradossalmente, è stata proprio la paura, anzi il terrore a garantirci il più lungo periodo di pace nella storia dell’uomo. Certo dalla fine della 2^ guerra mondiale di crisi globali e guerre locali ne abbiamo avute tante, qualcuno dice più di cinquecento, ma mai siamo stati davvero sul punto di giocarci la vita dell’intero pianeta e credo che, malgrado le truculente descrizioni della TV di stato russa, non lo siamo neppure questa volta. Tuttavia una remotissima possibilità rimane; laggiù, nell’Ade dell’inimmaginabile ma pur sempre reale, vediamo quindi come siamo arrivati a questo punto.

Nei diecimila anni della storia della guerra ci sono due date che faremo bene a ricordare perché è a partire da quei due giorni che l’umanità ha davvero avuto la concreta possibilità di estinguersi per un atto volontario. La prima è il 6 agosto 1945, un lunedì, quando alle 8,15 gli americani annunciarono al mondo e a 150.000 ignari giapponesi di avere il monopolio della morte nucleare. L’altra è un altro lunedì di quattro anni dopo, il 29 agosto 1949, quando a Semipalatinsk, nel remoto Kazakistan, i russi fecero esplodere la loro prima bomba atomica, annunciando che il monopolio era finito. Da quel momento inizia la costruzione dell’equilibrio di terrore tra le due superpotenze, un equilibrio basato su una certezza: mai, in ogni momento, in qualsiasi circostanza un attacco nucleare portato dall’uno contro l’altro avrebbe garantito una vittoria che avesse un minimo di senso. Per decenni e ancora oggi si è trattato quindi di conservare un equilibrio dinamico dove ognuna delle parti ha cercato di aprire uno spiraglio a quell’impossibile vittoria; spiraglio rapidamente chiuso dall’antagonista di turno attraverso l’introduzione di nuovi armamenti, più precisi, più letali e più numerosi. E via così.

Si era iniziato negli anni ’50 con i bombardieri strategici, aerei in grado di trasportare in qualche ora una bomba atomica sul territorio del Nemico. I missili a quel tempo erano ancora troppo rudimentali, troppo inaffidabili e troppo imprecisi per affidare loro una missione così definitiva. Ci vollero gli anni ’60 perché sia la Russia sia gli Stati Uniti arrivassero a costruire missili che fornissero una certa garanzia. Ad arrivare per primi furono i russi che tirarono fuori l’R-7 Semiorka, un mostro di 280 tonnellate alto 30 metri capace di trasportare una testata atomica a 9.000 chilometri dal luogo di lancio con la precisione di qualche chilometro. Gli americani risposero con l’ATLAS che di tonnellate ne pesava la metà ma arrivava a 18.000 chilometri e via così per tutti gli anni ’60 e ’70. Sono gli anni dei MINUTEMAN, dei JUPPITER e di un’intera famiglia di missili russi dai nomi impronunciabili che sostanzialmente davano vita a due famiglie diversi: i missili balistici e quelli da crociera o “cruise”, per dirla all’americana. Si trattava e si tratta ancora di armi completamente diverse. I primi, i missili balistici si comportano come un sasso lanciato lontano. Hanno cioè una traiettoria balistica con un tratto ascendente; un vertice , di solito ben fuori dall’atmosfera, e un tratto discendente che termina sull’obiettivo. Poche o nulle le possibilità di modificare la traiettoria. Un cruise è un’altra storia. E’ sempre un missile ma somiglia e si comporta come un aereo. Il suo volo all’interno dell’atmosfera è programmabile e anche largamente modificabile. fino al punto di impatto. Dopo questa necessaria precisazione torniamo ai missili.  Per mantenere l’equilibrio non bastava avere missili intercontinentali in grado di annichilire il Nemico, il suo esercito e le sue città. Bisognava prima essere certi che il Nemico che volevamo annichilire non fosse in grado di distruggere i nostri missili prima che noi distruggessimo i suoi.  In altri termini oltre a possedere un missile micidiale bisognava disporre anche di un luogo dove custodirlo e che fosse a prova di bomba. E’ questa l’epoca delle grandi basi missilistiche tanto care alla cinematografia degli anni ’70. Enormi silos di cemento armato e acciaio, sperduti nelle praterie americane o nelle steppe sovietiche, centri comando a centinaia di metri sotto terra, recinzioni e aree riservatissime. Ed è tutt’oggi ad esempio per la Russia che affida a missili balistici intercontinentali gran parte delle circa 4.477 testate nucleari di cui si stima disponga (stime 2022). I siti di lancio fissi sono visibili dallo spazio, e le loro attività, anche lo sfalcio dell’erba sono monitorate secondo per secondo offrendo così la reciproca e quotidiana possibilità di sapere se il mio Nemico anche oggi ha deciso di regalarsi un giorno di vita oppure sta facendo qualcosa di inatteso e preoccupante. In questo caso reagirò immediatamente, lui se ne accorgerà subito e probabilmente si tornerà nella normalità il più presto possibile. Tutto risolto? Certo che no. Ad entrambi le potenze atomiche era infatti venuto in mente che, in fondo, questi missili potevano essere lanciati anche da un treno o da un camion piuttosto robusto. Come si fa a tenere sott’occhio ogni camion e ogni treno dalla Siberia alla Montagne Rocciose? A quel punti l’equilibro sarebbe stato troppo dinamico e la possibilità che qualcuno ne approfittasse troppo alte. Che fare? Semplice, si rilancia con qualcosa di ancora più difficile da individuare; un sottomarino a propulsione nucleare, ad esempio. Un battello da un miliardo di dollari in grado di navigare in immersione per mesi e di arrivare così vicino alle coste nemiche da non dar tempo neppure di recitare l’ultima preghiera. Sul finire degli anni ’70 si era quindi composta quella che ancora oggi è definita come la “triade nucleare”, formata da bombardieri strategici, missili intercontinentali e sottomarini nucleari. Anche la triade merita una veloce riflessione. Se un bombardiere che trasporta qualche ordigno nucleare impiega infatti qualche ora per raggiungere il punto di rilascio e lo stesso per un sottomarino, allora posso anche avere il tempo per tentare di far rientrare la crisi, di cercare una soluzione o di convincere il Nemico che si fa sul serio. Basta un messaggio all’ultimo secondo e il bombardiere, con un’elegante scivolata d’ala, rientrerà alla base e il sottomarino potrà invertire la rotta. Insomma nella triade bombardieri e sottomarini permettono di spaventare a morte ma anche di fermarsi prima dell’irreparabile. Il missile invece non dà tempo. Una volta che l’autorità suprema ha deciso di lanciarlo e la sequenza di lancio sarà ultimata decollerà e arriverà sul bersaglio in meno di un’ora, senza possibilità di ripensamento. E’ l’arma definitiva. Si potrebbe ora discutere di missili a combustibile solido o liquido, di missili cruise, di MIRV e di sistemi di guida a mappatura stellare. Argomenti tutti interessantissimi che però rischiano di distogliere il ragionamento dal suo punto cruciale. Siamo noi in grado, o meglio, sono in grado i decisori ultimi di provare il necessario terrore che gli impedirà anche il solo pensare a ricorrere all’arma nucleare? In fondo la costruzione di missili nucleari tattici, cioè meno potenti, l’invenzione delle testate multiple e indipendenti, i sistemi di guida in grado di colpire con una scarto di qualche metro non risolvono la questione. Chi decide ha o non ha la percezione intima di cosa sta facendo? Avverte una salvifica paura? Si entra qui nel campo della fede che nessuna procedura di sicurezza, per quanto accurata e testata, può rendere una certezza. Vorrei pensare che ogni volta che una delle potenze atomiche ha forzato la mano agitando la sua valigetta nucleare lo ha fatto solo per ricordare a tutti che è necessario avere paura e di conseguenza scegliere un’altra strada. Si è accennato qui alle potenze atomiche, ma quante sono e soprattutto, ci si può fidare? Decidete voi. Della Russia e degli Stati Uniti abbiamo già parlato; ad essi da anni si è affiancata la Repubblica Popolare Cinese che da non molto, grazie ai sottomarini classe Shang, dispone anch’essa della triade nucleare così come Francia, Gran Bretagna, India e Pakistan. Israele e Corea del Nord completano il club, ma non dispongono di sottomarini in grado di rilasciare missili balistici nucleari. Ciascuna di queste nazioni ha la possibilità di condurre o di reagire a una guerra nucleare il che le rende completamente diverse da tutte le altre, sia nella politica, sia nella considerazione del loro collocarsi nel consesso mondiale.

Alla luce di questa panoramica come si inquadrano duque le parole di Putin circa armi terribili e mai viste? In larga parte si tratta, come è ovvio, di propaganda. È propaganda infatti l’ultimo missile RS-28 “SARMAT”, che la NATO denomina “SATAN”. I russi, in base ai nuovi obblighi del Trattato START, hanno infatti adeguatamente informato gli Stati Uniti del test e gli USA hanno monitorato il collaudo del missile russo con due aerei RC-135S Cobra Ball. Questi aerei dispongono di apparecchiature specializzate per tracciare questi tipi di armi e raccogliere dati di telemetria e altri dati di intelligence elettronica, nonché immagini visive. Dunque il lancio avvenuto il 20 aprile 2022 alle 15:12 (ora di Mosca) dal cosmodromo di PLESETSK nella regione di ARKHANGELSK era perfettamente noto. Così come è noto che il SARMAT è stato lanciato con successo da una postazione fissa terrestre e che le attività di collaudo del lancio sono state completate con successo con le testate multiple di addestramento che hanno colpito obiettivi nel poligono di addestramento di KURA nella penisola di KAMCHATKA. Si sa anche che nella base missilistica di UZHUR, nel territorio di KRASNOYARSK, sono in corso i lavori per preparare il reggimento missilistico locale al nuovo sistema d’arma che sostituirà il più anziano R-36M “VOEVODA” dell’era della Guerra Fredda.

Non c’è da preoccuparsi dunque. In realtà qualche motivo di preoccupazione lo si potrebbe avere e riguarda la famiglia delle cosiddette “armi ipersoniche”. Si tratta di missili che si muovono nell’atmosfera ma ad elevatissima velocità – si parla da mach 5 a mach 25 – che tradotto in chilometri all’ora, per chi riesce ad immaginarlo, sarebbero da 6.000 a 30.000 km/ora. A quelle velocità il tempo di volo e anche la capacità che questi missili hanno di cambiare traiettoria rendono la loro scoperta e il successivo abbattimento quasi impossibile. Ecco quindi che sono armi che rompono quell’equilibrio dinamico a cui si è sempre accennato. Oltretutto Russia e Cina, competitori primari degli Stati Uniti, sono molto avanti in questo settore sebbene Washington abbia investito moltissimo per ristabilire l’equilibrio e, magari, spostarlo a suo favore. Si tratta dunque della solita meccanica di azione e reazione che da settant’anni regola gli equilibri in questo pianeta. Reggerà per sempre o da qualche parte c’è già un dottor Stranamore pronto a tentare il colpo, magari di lunedì, magari d’agosto. Vedremo.

le radici del conflitto.

Manifestazioni a Kiev durante la cosiddetta rivoluzione arancione del 2004

Ogni storia ha bisogno di un punto di inizio, del suo “c’era una volta”. Per raccontare questa si può iniziare dal 19 agosto 1991. A Mosca l’estate sta quasi finendo ma nessuno se ne accorge. Parte dell’Armata Rossa sta tentando un ultimo tentativo per impedire la dissoluzione dell’URSS e tornare ai bei tempi antichi. Il 23 agosto 1991 la popolazione moscovita scende in strada per opporsi alla sollevazione e i militari, davanti alla prospettiva di dover massacrare i propri concittadini, dopo qualche scaramuccia con la folla finiscono per tornare nelle caserme. L’URSS non c’è più. Negli stessi giorni a Kiev, in una riunione-fiume durata 11 ore il soviet supremo dell’Ucraina vota a favore dell’indipendenza: una decisione ratificata poco dopo da Leonid Kravčuk, guida del partito comunista ucraino. Il 1° dicembre un referendum dichiara che il 92,3% degli ucraini a favore della separazione dall’URSS. Dopo 72 anni l’Ucraina torna un Paese libero. Segnato dalla corruzione e dalla disorganizzazione il primo decennio d’indipendenza è comunque un periodo di crescita economica per l’Ucraina, che instaura buone relazioni con i suoi vicini e un trattato di cooperazione con l’Unione Europea. Siamo agli inizi del 2004 quando il risultato incerto delle elezioni tra il candidato filorusso Viktor Janukovyč e l’europeista Viktor Juščenko porta all’annullamento delle elezioni. Gli ucraini che sentono avvicinarsi di nuovo Mosca scendono in piazza per quella che verrà ricordata come la “rivoluzione arancione”, così chiamata per i cartelli e i vestiti che simboleggiavano l’opposizione a Janukovyč.

Si tengono nuove elezioni e questa volta a vincere è Juščenko.  E’ questo il punto d’inizio del conflitto sempre più duro tra l’Ucraina e la Federazione russa dove nel frattempo è apparso un nuovo leader Vladymir Putin, molto meno disposto dei suoi predecessori a fare concessioni su quello che la Russia percepiva come la sua zona di interesse esclusivo. Malgrado tutte le promesse elettorali, nei sei anni in cui è al potere l’integrazione nell’Unione Europea non fa progressi, la popolarità di Juscenko sprofonda; Julija Tymošenko primo ministro e leader della rivoluzione arancione si dimette per presentarsi come candidata alle elezioni presidenziali del 2010, al il 25 febbraio 2010 Janukovyč vince le elezioni e cambia di nuovo tutto. Il partito europeista è battuto e l’Ucraina inizia a riavvicinarsi a Mosca. Nel 2011 Julija Tymošenko, ormai diventata leader dell’opposizione, viene arrestata con l’accusa di corruzione e abuso di potere. La condannano a sette anni e rimarrà in carcere per tutto il periodo in cui Janukovyč resterà presidente. E intanto siamo arrivati al 2013 quando Janukovyč rifiutando di rinnovare l’accordo con l’Unione Europea scatena la protesta prima giovanile e poi polare. La violenta reazione del governo e l’infiltrazione tra i manifestanti di gruppi nazionalisti e neonazisti fa degenerare la situazione in una vera e propria guerra urbana tra manifestanti e polizia, con parecchi morti da entrambe le parti.

Il 21 febbraio 2014 migliaia di manifestanti prendono d’assalto il parlamento e il ministero degli interni. Il giorno dopo i deputati dell’opposizione votano la sfiducia a Janukovyč obbligandolo all’esilio. La Tymošenko viene immediatamente liberata dal carcere e il Paese torna nelle mani di un governo europeista, guidato da Oleksandr  Turčynov.

Guerriglia urbana
La reazione della Russia non si fa attendere. Al Cremlino circola una certa preoccupazione per la marginalizzazione delle aree russofone del Paese, inoltre l’avvicinamento all’Occidente dell’Ucraina poteva privare Putin di un valido alleato commerciale e ridurre i benefici di grande imprese petrolifere come Gazprom. Infine in Crimea, la base navale di Sebastopoli, già ceduta alla flotta russa da Janukovyč, correva il rischio di finire in mani ucraine. Il giorno prima delle dimissioni di Janukovyč, il presidente russo Putin ordina l’invasione della Crimea e si annette la penisola per decreto il 18 marzo dello stesso anno.

A Kiev il governo di Turčynov dura poco e a giugno 2014 viene eletto presidente l’imprenditore Petro Porošenko, il “re del cioccolato” per via d’essere il più grande produttore di dolciumi in Ucraina. Ma non è solo cioccolatini.

Porošenko possiede diversi stabilimenti che producono auto e atobus produttivi il cantiere Lenins’ka Kuznja, il canale televisivo Kanal 5 e la rivista Korrespondent e secondo la rivista Forbes sarebbe uno degli uomini più ricchi d’Ucraina con un patrimonio stimato attorno al miliardo di dollari.

Eccoci dunque alla primavera del 2014. A maggio nella regione del Donbass, al confine con la Russia, contro il parere dello stesso Putin, si tiene un referendum. Si chiede ai cittadini di votare a favore o contro l’autonomia (самостоятельность) delle province di Donetsk e Lugansk. Si badi bene; «autonomia» e «autodeterminazione» non «indipendenza» (незави имость). Le due repubbliche non cercano infatti di separarsi dall’Ucraina, ma solo di avere uno statuto di autonomia che garantisca loro l’uso della lingua russa come lingua ufficiale. E perché? Perché subito dopo il rovesciamento di Janukovyč, il primo atto legislativo del nuovo governo di Kiev era stato l’abolizione il 23 febbraio 2014, della legge Kivalov-Kolesnichenko che dal 2012 faceva del russo una delle lingue ufficiali nella repubblica ucraina. La cosa non era stata presa affatto bene dalla numerosa comunità russofona del paese che aveva subito reagito con proteste in molte città, ma soprattutto nelle regioni a prevalente lingua russa di Odessa, Dniepropetrovsk, Kharkov, Lugansk e Donetsk. La reazione di Kiev non è tenera, la polizia spara e arresta, anche con l’aiuto di formazioni paramilitari. Ad Odessa, il 2 maggio 2014, 48 persone muoiono nel rogo della Casa dei Sindacati appiccato da estremisti nazionalisti ucraini appartenenti al battaglione AZOV. Episodi analoghi si verificano a Mariupol e in altri villaggi e cittadine del Donbass.  Alla fine dell’estate 2014 nelle province di Donetsk e Lugansk l’iniziale protesta si è trasformata in lotta armata assumendo caratteri propri della guerriglia, simili a quella condotta nel Sahel africano: operazioni mobili condotte con mezzi leggeri contro obiettivi isolati e statici. L’inaspettata efficacia dei ribelli ormai dichiaratamente separatisti pone l’esercito regolare di Kiev in serie difficoltà che accusa Mosca di supportare direttamente i ribelli. Tuttavia né i servizi di intelligence della NATO né quelli dell’OSCE riescono a produrre alcun dato certo. Solo i servizi polacchi continuano ad attribuire alla Russia la fornitura d’armi ai ribelli del Donbas.

Appare tuttavia sempre più evidente che i ribelli si sono armati grazie principalmente alle defezioni di reparti ucraini mandati a fronteggiarli. Mese dopo mese la guerriglia separatista si rafforza sempre più e con le periodiche sconfitte ucraine entrano a far parte dell’arsenale dei ribelli anche carri armati, artiglieria e sistemi contraerei. E’ questo ciò che spinge Kiev a impegnarsi per un accordo che ponga fine alla questione Donbass.

L’accordo per porre fine ai combattimenti nell’Ucraina orientale viene raggiunto a Minsk il 5 settembre 2014 sotto l’egida della Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE). E’ opera del Gruppo di Contatto Trilaterale sull’Ucraina, composto dai rappresentanti di Ucraina, Russia, Repubblica Popolare di Donesk e della Repubblica Popolare di Lugansk. Esso prevede il cessate-il-fuoco immediato, lo scambio dei prigionieri e l’impegno, da parte dell’Ucraina, di garantire maggiori poteri alle regioni di Doneck e Lugansk. Ancora nessuno parla di indipendenza. Tuttavia, subito dopo aver firmato il presidente Porochenko ci ripensa e lancia una vasta operazione antiterroristica (ATO/Антитерористична операція) contro il Donbass. Malgrado le speranze del presidente l’operazione si conclude con una dura sconfitta per Kiev in particolare nella zona di Debaltsevo. Nel febbraio 2015 vengono quindi sottoscritti nuovi gli accordi denominati “Minsk 2”. In tutti e due i testi sottoscritti nel settembre 2014 e nel febbraio 2015 non si parla mai di separazione, né di indipendenza delle repubbliche, ma della loro autonomia all’interno dello stato ucraino.

Lo statuto delle repubbliche doveva essere quindi negoziato nel dettaglio tra il governo di Kiev e i rappresentanti delle repubbliche. Insomma una soluzione interna all’Ucraina, senza la partecipazione diretta della Federazione russa che li aveva derubricati a una questione interna di un altro stato.

Al contrario alle potenze occidentali- Francia in testa – gli accordi di Minsk piacciono poco e tentano di sostituirli con il cosiddetto «format Normandie», che prevede invece il diretto coinvolgimento della Federazione russa nella questione del Donbass. Fino a quel momento Mosca si è tenuta quanto più possibile distante dalla faccenda, così come peraltro è testimoniato dagli stessi servizi segreti occidentali, in primis quelli britannici e statunitensi che non hanno mai riferito della presenza di truppe russe in Donbas prima dell’attuale offensiva di fine febbraio 2022. Anche gli osservatori dell’OSCE non hanno mai osservato alcuna traccia di unità russe operanti nel Donbass. Nell’ottobre 2015 anche Vasyl Hrytsak, direttore del Servizio di sicurezza ucraino (SBU), deve ammettere che in due anni (2014-2015) nel Donbas erano stati osservati non più di una cinquantina di combattenti di cittadinanza russa. I guai Kiev li ha invece all’interno del proprio esercito, inviato a fronteggiare i “separatisti filo-russi”.

2014 – manifestazioni a Kiev in piazza Maidan

Nell’ottobre 2018, dopo quattro anni di combattimenti, il procuratore militare Anatoly Matios dichiara che l’Ucraina ha perso 2.700 uomini nel Donbass: 891 per malattie, 318 in incidenti stradali, 177 per altri incidenti, 175 di avvelenamenti (alcol, droga), 172 a seguito di manipolazioni imprudenti di armi, 101 per violazioni delle norme di sicurezza, 228 per omicidio o in combattimento e 615 per suicidio. Le operazioni in Donbass non sono affatto popolari tra i giovani ucraini che sognano l’Europa e si ritrovano invece a far la guerra in Donbass. Lo si desume facilmente dai dati del richiamo dei riservisti nel marzo-aprile 2014. I dati sono desunti da una relazione del ministero dell’interno britannico che riporta come il 70 % dei richiamati non si è presentato alla prima sessione, l’80 % alla seconda, il 90 % alla terza e il 95 % neppure alla quarta. Nell’ottobre/novembre 2017, non va meglio: il 70 % dei richiamanti alle armi non si è presenta. Questo senza contare i suicidi e le diserzioni che raggiungono fino al 30 % degli effettivi nella zona d’impiego in Donbass. Intanto a Kiev anche Poroshenko perde colpi. Nel 2019 si ricandida alle presidenziali ma non raggiunge neppure il 16%. Vince Volodymyr Oleksandrovyč Zelensky, attore, sceneggiatore e comico, con il 73,7% dei consensi.

L’elezione di Zelensky non risolve i problemi di efficienza e credibilità interna delle forze armate ucraine. Kiev si rivolge quindi alla NATO per tentare di rendere le sue forze armate più «attraenti» per i giovani ucraini. Nel 2014, anno in cui il Donbass inizia a sobbollire, le relazioni tra NATO e Ucraina non sono certo una novità. Tra di loro il dialogo e la cooperazione erano infatti iniziati già nel lontani 1991, l’anno del quasi colpo di stato a Mosca e della riunione fiume che aveva sancito l’indipendenza dell’Ucraina. Allora l’Ucraina aveva aderito al Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico per poi entrare nel 1994 nel programma PfP (Partenariato per la Pace), avviato dall’Alleanza non solo verso tutti i paesi dell’ex “Patto di Varsavia” ma anche nei confronti delle repubbliche ex –sovietiche sia europee sia asiatiche. Erano gli anni convulsi di Boris Eltsin e del partito comunista di Zjuganov; Chernobyl ancora fumava e le iniziative della NATO non avevano suscitato significative proteste da parte di Mosca. Almeno allora.

Nel 1997 mentre si pubblica il primo libro di Harry Potter e muore Lady Diana, la NATO e l’Ucraina danno vita al NATO-Ukraine Council (NUC) e sempre dal 1997 la NATO apre a Kiev in via  Melnykova 36/1 il  NATO Information Documentation Center (NIDC). Nel 1999 è l’ora di una rappresentanza “semi diplomatica”, il NATO Liaison Office (NLO: Ufficio di Collegamento della NATO). Anche sul piano operativo e delle missioni NATO e Ucraina si danno da fare. Dal 1996 l’Ucraina contribuisce attivamente a tutte le operazioni e alle missioni a guida NATO, a partire da quelle in Bosnia, in Kosovo, in Afghanistan, alle operazioni anti-pirateria nell’Oceano Atlantico, oltre a contribuire negli anni recenti anche alla NATO Reaction Force.

Insomma un’amicizia di lunga data che va avanti in crescendo fino al 2008 quando al summit dei capi di stato e di governo della NATO di Bucarest, l’amministrazione Bush jr propone e sostiene con forza l’adesione di Ucraina e Georgia all’Alleanza.  Solo la decisa opposizione di Francia e Germania ferma il tentativo. Intanto da circa otto anni al Cremlino s’è insediato Vladimyr Putin, una personalità ben diversa da quella di Eltsin e molto più attenta alla politica che la NATO esercita nei confronti dell’ex spazio sovietico.

Visti gli amichevoli trascorsi è quindi naturale che nel 2014- 2015 Kiev si rivolga alla NATO per rimodernare le proprie forze armate, ripristinarne l’immagine tra la popolazione e aumentarne l’efficienza. Si tratta però di un processo lungo e gli ucraini vogliono muoversi in fretta, Anche perché Putin è sempre più infastidito dall’intraprendenza della NATO verso Kiev.

Il governo di Kiev decide peraltro di integrare queste forze paramilitari nei quadri della Guardia Nazionale, un corpo sottoposto al ministero degli interni. Non ci sarebbe nulla di male se nel frattempo i membri di queste formazioni avessero rivisto un po’ i loro riferimenti ideologici di stampo neo-nazista. Basta però guardare al cosiddetto “reggimento AZOV” per comprendere che così non è stato. Lo stemma che i miliziani della AZOV portano fieramente sul braccio ricorda molto, molto da vicino quello della tedesca 2^ Divisione corazzata Waffen SS “Das Reich”, unità oggetto di una vera e propria venerazione in Ucraina per aver  liberato Kharkov dai sovietici nel 1943.

Dal 2014 sono dunque queste le milizie inviate nel Donbass dove si distinguono per determinazione e crudeltà nei confronti principalmente della popolazione civile di lingua russa.

Siamo dunque al 2022 e per memoria è bene ricordare che all’inizio delle operazioni le forze armate ucraine di terra si articolano in 3 corpi d’armata dell’esercito e dalla Guardia Nazionale, che dipende dal Ministero dell’Interno ed è articolata in 5 comandi territoriali.

La Guardia Nazionale è quindi una forza di difesa territoriale che non fa parte dell’esercito ucraino. Comprende le milizie paramilitari, chiamate «battaglioni di volontari» (добровольчі батальйоні). Principalmente addestrati per la lotta urbana, oggi assicurano la difesa di città come Kharkov, Mariupol, Odessa, Kiev, ecc.

Oggi il reggimento AZOV combatte a MARIUPOL e c’è da pensare che gran parte della determinazione a combattere sia dovuta alla convinzione che una volta caduti prigionieri dei russi potrebbero passare un brutto quarto d’ora

IL TULIPANO NERO

“Il tulipano nero volteggia su di me”, così cantavano trent’anni fa i soldati dell’armata rossa mandati a combattere in Afghanistan. “Ciòrnije Tulpan – Tulipano Nero” era infatti il soprannome che la truppa aveva appioppato agli Antonov che riportavano in Russia i cadaveri dei caduti. Oggi i “tulipani neri” sono i vagoni frigorifero abbandonati nelle stazioni di confine tra Ucraina e Russia. Meglio di molte analisi sono essi a descrivere la durezza di questa campagna militare che da ottanta giorni ha investito l’Ucraina. Investita, ma non travolta è la sintesi di un conflitto annunciato che oltre a Russia e Ucraina sta coinvolgendo gran parte del mondo occidentale. E già, perché non dobbiamo dimenticare che, sebbene la nostra innata mania di protagonismo ci porta a identificare il mondo con l’Occidente, potenze nucleari come Cina, India e Pakistan non sono andate oltre un tiepido invito alla Russia a moderarsi e che gran parte del pianeta intravede il conflitto in corso come a un lontano riverbero. A chi potrebbe essere funzionale una simile situazione? A chiunque ricavi forza dalla debolezza altrui come ad esempio dalla debolezza dell’Unione Europea che malgrado i proclami di tetragona unità sta già manifestando i limiti di un’unione economica ma non politica. Oggi si blatera di spesa militare e di una politica di difesa europea, ma senza ricordare che una politica di difesa è essenzialmente la difesa di una politica. C’è qualcuno oggi, da Lisbona a Budapest, capace di indicare una politica europea su un qualsiasi argomento? Se c’è, si faccia avanti e la spieghi senza la solita retorica.

Dunque la guerra indebolisce l’Europa, ma non solo. Neppure la Russia ne uscirà bene. L’Occidente ha sbattuto la porta in faccia a Mosca e prima che si possa di nuovo socchiudere ne passerà di tempo. E intanto? Una sterminata nazione che vive esportando materie prime non può permettersi di attendere che il clima a occidente si svelenisca quando a oriente la Cina è già pronta a mostrarsi assai più comprensiva degli Stati Uniti, per tacere dell’India. Da Roma a Berlino; da Parigi a Bruxelles possiamo davvero permetterci di confinare con un gigante economico-militare di quelle dimensioni? Anche qui chi ha una spiegazione convincente è pregato di farsi avanti. Tuttavia, che la Russia vinca o che perda quelle adombrate fin qui sono dinamiche già in atto, ma l’esito del confronto sul terreno ha comunque una grande importanza per determinarne la velocità di sviluppo. Ecco perché capire cosa in queste ore tra il Donbas e il Mar d’Azov è interessante. Per questa volta non parleremo né di tattiche né di progressi o cessioni di terren, soffermandoci più da vicino sui due contendenti e sulle dimensioni del ring. Partiamo da quest’ultimo per osservare come le operazioni si svolgono attualmente su 900 km di fronte, da Kharkiv a Mykolayev, una distanza superiore all’intero fronte francese nella prima guerra mondiale. Troppo lungo per garantire una necessaria concentrazione degli sforzi. Ma non solo. Si deve anche considerare che le risorse militari disponibili non si concentrano solo lungo la linea del fronte. La guerra infatti vive e si nutre dalle retrovie, tanto più ampie e profonde quanto più l’impegno dei combattenti è duro. Così non si può trascurare che la battaglia comprende in realtà l’intera Ucraina, anche la parte a ovest del Dnepr e poi la Bielorussia, la Russia nelle sue provincie di confine e infine il Mar Nero fino all’isola dei Serpenti. E’ in questo spazio allargato dove operano i piccoli reparti delle forze speciali o le forze aree e missilistiche ed è sempre in questo spazio dove si concentra la maggioranza della popolazione civile, almeno quella che non si è unita ai circa cinque milioni di sfollati che hanno deciso di fuggire ad occidente.

Per tornare comunque ai 900 chilometri di fronte è qui che troviamo 27 brigate ucraine. Si tratta di grandi unità composte da tre a cinque battaglioni, vale a dire dai 2 ai 3.000 uomini con carri armati, veicoli corazzati per il trasporto delle truppe, artiglierie, lanciarazzi e tutto l’armamentario che fa di quello ucraino uno degli eserciti meglio equipaggiato, addestrato ed efficiente d’Europa. Sorpresi? Certo l’immagine dei cittadini di Kiev che sbriciolavano polistirolo per fabbricare bottiglie molotov e dei tanti signor Giovanni che si addestravano con il fucilino di legno hanno intenerito il mondo intero. E’ però ora tempo di dirsi che quello ucraino è un esercito potente, ben prima che ricevesse gli aiuti occidentali di cui ancora si discute. Non dimentichiamoci infatti che per Kiev la guerra è iniziata otto anni fa, nel 2014, ed è iniziata malissimo. Le rivolte a Donetz e Lugansk avevano infatti evidenziato come Kiev disponesse di un sacco di soldati e di mezzi ma niente di più. Da allora, e certamente non solo per merito del solo governo ucraino, l’esercito del tridente ha cambiato e migliorato la logistica, gli equipaggiamenti, le armi ma soprattutto la dottrina, le procedure di combattimento, le apparecchiature per il comando e il controllo, etc. E’ questo l’esercito che le sta quasi suonando a Mosca e non basta. Alle brigate regolari si sono infatti affiancate quelle della Guardia nazionale/territoriale che ora sono schierate lungo la linea di contatto o nei centri abitati. Questa, che in gergo militare si definisce “forza di manovra”, è sostenuta dal fuoco di reggimenti o brigate di artiglieria. Insomma, un osso duro.

E dall’altra parte cosa troviamo? Delle armi sconosciute e terribili minacciate da Putin non c’è traccia. Per ora le divisioni e le brigate russe, sui 140 disponibili, allineano circa 95 gruppi tattici. Per chiarezza un gruppo tattico è un’unità costituita da mille, millecinquecento uomini che costituiscono un battaglione corazzato rinforzato – in altri termini carri armati e veicoli blindati –  e un gruppo di artiglieria, vale a dire una ventina di obici semoventi. A questi 95 vanno aggiunti altri due Corpi d’Armata reclutati nelle repubbliche separatiste che forniscono un’altra quindicina di gruppi tattici. A queste “forze di manovra” si affiancano i supporti vale a dire i reggimenti del genio, quelli che costruiscono strade e ponti, altre brigate di artiglieria dotate di obici semoventi, lanciarazzi e missili tattici e anche gli “spetsnaz” la cui “telnyashka”, la famosa maglietta a righe bianche e blu, è nota dai tempi dei film di Sylvester Stallone.

Questo esercito può infine beneficiare di 2-300 sortite di cacciabombardieri al giorno, missioni condotte sia per sostenere le unità a contatto, sia per colpire obiettivi in profondità come snodi ferroviari, ponti, officine di riparazione armi, depositi di munizioni o caserme di cui i telegiornali forniscono quotidiano censimento. A questo punto qualcuno potrebbe pensare che i russi dispongono di un esercito coi fiocchi e che quindi la lentezza dell’offensiva e l’inconcludente avanti e indietro siano dovute all’impreparazione o all’incapacità, o magari a entrambe. Forse sì, ma solo in minima parte. Quello che si percepisce è infatti che i russi sono troppo pochi per vincere e gli ucraini sono troppo pochi per ricacciarli oltre confine. Ai due non resta quindi che massacrarsi a vicenda lungo i 900 chilometri della linea di contatto. Le forze sono infatti sostanzialmente bilanciate su tutto il fronte con qualche piccolo distinguo. Negli abitati e attorno ai piccoli centri dove principalmente si concentra la lotta, la fanteria ucraina appare infatti superiore e più determinata dei russi che però compensano con una maggiore potenza di fuoco, in particolare di artiglieria. Entrambe le parti, ma soprattutto quella ucraina, hanno il vantaggio difensivo di posizioni molto ben organizzate, vale a dire trincee, ricoveri, campi minati etc. In queste condizioni è quindi difficile poter progredire e ottenere effetti strategici. In tale prospettiva generale vanno quindi interpretati i successi ucraini a nord, nei pressi di Kharkiv e quelli russi a sud, dalle parti di Severodonetzk. Nulla di decisivo se non per il “tulipano nero” che da oltre ottanta giorni volteggia là sopra. Come andrà a finire? Vedremo.