L’ORSO RUSSO

Nessuna descrizione della foto disponibile.
l’orso, tradizionalmente l’emblema della Russia.

Conosco cento modi per stanare un orso dalla sua tana, ma non ne conosco neppure uno per farcelo rientrare“. Otto Von Bismark

“Scusami, ma sono fatto così!” Esopo lo faceva dire al suo scorpione adagiato sul dorso della povera rana e anche noi ne facciamo quotidiana esperienza. Ebbene, i russi non sono né matti, né avventati, né criminali e neppure tanti altri aggettivi che in queste ore ci vengono in mente. Semplicemente sono fatti così. Dall’inizio della loro storia si sono sempre sentiti stretti da qualcuno che voleva annientarli. Prima i tartari, poi i turchi, gli svedesi, i polacchi, i francesi, i tedeschi e da ultimi…noi.Ora, a noi che in 60 milioni viviamo, uno sopra l’altro, in una striscia di terra di 360.000 chilometri quadrati, apparirà bizzarro che un popolo di 180 milioni di persone che abitano il più grande paese della terra (18 milioni di chilometri quadrati, il doppio degli USA, tanto per capirci) si sentano accerchiati, ma come ho detto in apertura, sono fatti così. Purtroppo quando si soffia su questo atavico sentimento i russi reagiscono molto male, perché è la loro natura. Certo lo sanno che la guerra porterà distruzione e povertà sia a loro sia ai poveri ucraini, ma secoli di zarismo, Stalin, Hitler e gli ultimi 60 anni di comunismo li hanno allenati a sopportare momenti duri; giorni difficili, anni di pena. E ne sono orgogliosi perché sanno che alla fine l’animo russo sopravvivrà e ne uscirà rafforzato. Putin dunque non è un pazzo, ma un russo a cui l’occidente giorno per giorno ha stretto attorno al collo una ruvida cravatta di stati ostili. Dopo il 1989 gli Americani – gente molto, molto diversa dai russi – hanno fatto di tutto per umiliare una nazione già sconfitta dalla storia e piegata dall’economia. Mi riferisco all’allargamento a est della NATO. Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria e poi Romania, Bulgaria, gli stati baltici… è stata tutta una gara ad aggiungere cani alla muta di quelli che già abbaiavano all’orso. Ma l’orso è pur sempre un orso e quando l’ultimo cane, quello a lui più vicino ha dichiarato di voler unirsi alla muta, ha reagito nell’unico modo che conosce: la forza.Ora piangiamo la violenza con cui si muove e vorremmo riportarlo nella sua gabbia, ma l’abbiamo tirato fuori noi da lì. E come ogni orso ha fatto scorte di grasso prima dell’inverno a cui le nostre inutili sanzioni credono di condannarlo. La Russia ha riserve di valuta, manufatti, oro, cibo almeno per i prossimi sei mesi. Noi europei siamo sicuri di poter dire lo stesso? Credo di no. Con la benzina a 2,5 euro, bollette del gas da 600 euro a famiglia, la pasta a 2 euro al mezzo chilo e via così non abbiamo il grasso dell’orso. Dopo 2 anni di Covid, la fame e l’indigenza che il modello americano ci aveva illusi fossero estinti in questa parte del mondo ritorneranno e sarà quello il momento in cui ci rivolgeremo contro gli USA che reggono i nostri guinzagli e inizieremo ad abbaiare contro di loro accusandoli di averci mandati contro un orso troppo grande e con denti troppo lunghi. E poi inizieremo ad abbaiare uno contro l’altro per un osso, per spingere verso qualcun altro i profughi morti di fame per i quali manifestavamo e illuminavamo monumenti e forse inizieremo a capire come l’alleanza, anzi l’unione che ci siamo costruiti è una casa di carta. Nell’Unione Europea apparirà lo scheletro fatto di banche, di soldi e di obblighi commerciali. Qualcuno penserà anche che abbiamo avuto 50 anni per dargli un’anima ma abbiamo preferito dargli una moneta.In queste ore ci chiediamo quanto durerà la guerra. E chi lo sa? Putin ce la farà contro l’Ucraina? E chi lo sa. Il conflitto si allargherà in una guerra di più vasta portata? E chi lo sa. Entreremo in guerra? Ci bombarderanno? Ancora…e chi lo sa.Diffidiamo degli esperti che ci dipingono quadri precisi per i prossimi mesi perché è nella natura della guerra mutare, cambiare, evolversi in nuove forme tutte terribili, tutte feroci. La guerra finisce quando ha mangiato quello che voleva mangiarsi e non un minuto prima. Può darsi che questa alla fine si mangerà Putin, oppure la NATO o anche la stessa Unione Europea, ma di sicuro non ritornerà nell’oscuro bosco della paura senza aver divorato qualcosa o qualcuno. Forse noi stessi.

MOTO E GELO.

D’inverno il buio e la notte si separano.

Il sole e l’azzurro di questo tempo intimo sono solo un promemoria per la prossima estate; il freddo, invece, si coniuga al presente.

A me piace il freddo, ma non tutto, quello della moto si. Già, perché c’è freddo e freddo e chi va in moto sa di cosa parlo. Di quello che entra alla base del collo, che s’insinua nelle maniche del giubbotto o che, come un impacco, ti si aggrappa alle rotule e non molla. A me quel freddo piace perché insieme al trabiccolo instabile e precario che mi trasporta mi sottrae a ogni presunzione di onnipotenza. Non puoi farci nulla ed è questa l’essenza dell’andare in moto: non poterci far nulla. Se piove ti bagni; se fa freddo lo becchi; se c’è il solleone vai arrosto. Niente tergicristallo, niente aria condizionata. Nulla; fine di ogni onnipotenza da automobilista.

Royal enfield bullet 500 – la mia. Nei boschi sopra il lago di Vico (VT) (foto p.Capitini)

Appena giri la chiave e il motore inizia a battere ti chiedi se davvero vuoi entrare nella strada. Non ammirarla; non osservarla, ma starci proprio dentro. Dentro il casco arriverà l’odore di diesel incombusto e quello del letame dell’allevamento che sto costeggiando o magari il profumo dei pini d’Appennino e delle ginestre a bordo strada. Arriverà forse anche il profumo di porchetta e salsicce dal furgoncino laggiù, giusto dopo l’uscita del ponte.

A me tutto questo piace, così oggi ho preso la mia Royal Enfield – 2 quintali di ferro, forse 3 etti di plastica e solo 27 cavalli per spingerli – e mi sono regalato un pomeriggio di inverno. Sul tavolo erano rimaste ormai solo un paio di fette di sole e tutti i colori dell’autunno.

Farà buio presto! C’è poco tempo! Meglio rimandare! Come spesso mi accade i buoni consigli sono rimasti sulla soglia di casa (anche questo è molto motociclistico). Faceva un freddo meraviglioso. Prendo per la Cassia e dopo Capranica svolto per la strada che porta al lago di Vico. Il nuovo filtro dell’aria regala un ulteriore scoppiettio al motore, soprattutto quando apro il gas, passando per castagneti secolari e per noccioleti di recente avidità. Scavalcato il bordo del cratere entro nel regno dei faggi e di qualche tenace roverella e di altre mille essenze di altrettanti colori. Più in basso, sullo sfondo, la lama metallica del lago: malato di pesticidi ma ancora dignitosamente meraviglioso.

Lago di Vico (VT) (foto p.Capitini)

Mi fermo sulla riva e scambio due parole con un fotografo di Anagni. Si parla di fotografia e di moto. “Non sente freddo?” Mi domanda infine e vedo che non ha il coraggio di aggiungere “alla sua età”. Rispondo che si, per fortuna sento freddo, ma in inverno il buio e la notte sono due cose diverse e riparto costeggiando il lago. La lucina stentata del contachilometri fa pregustare l’odore del camino.

EUR – Roma. 9 gennaio 2021

Li incrocio fuori dai bar, nel quartiere romano dell’EUR.

Costretti dal covid nelle brevi file dell’asporto, sembrano essere l’unica presenza biologica in questo deserto di marmo bianco e di cielo grigio.

Giovani uomini armati di cellulare. Le tempie rasate; le sopracciglia disegnate, la barba falsamente incolta, l’inquietante fusione tra giovani nazisti e dive americane degli anni ’50. Ne vedo parecchi mentre mi perdo per i rettilinei di quest’idea di città.

Amo l’EUR : i suoi palazzi dagli ingressi camuffati tra colonne infinite; le finestre ripetute come grani di un ordinato rosario, il bianco e il grigio. In questo luogo lo spazio ha inghiottito il tempo, sputandone fuori lische di quotidiano. Tali e quali ai replicanti che vedo fuori dai bar.

Non sentono il bisogno di trasformarsi in gente, tanto meno in popolo. “UN POPOLO DI POETI, DI ARTISTI, DI EROI…”. A leggerla oggi quella frase perenne sul palazzo della Civiltà Italiana appare profetizzare la venuta di una razza aliena che mai arrivò. Prima che dagli alieni il palazzo è invece stato occupato dalla maison Fendi. Una guardia giurata vestita di nero, garbatamente, me lo ricorda. Le privatizzazioni che ci avrebbero resi più liberi e più ricchi per ora mi tengono fuori.

Giro sui tacchi e me ne vado verso un bar proletario e non troppo griffato dove altri replicanti parlano, ridono, imprecano.

Nessuno sembra voler essere proprio lì.

Nel luogo esatto in cui si trova; con le persone che gli sono accanto; nel tempo che gli è dato.

Guardano al presente come si guarda a un giocattolo rotto, vivendo nel racconto e nel sogno, non più nell’azione. Eppure oggi qui piove una pioggia leggera e presente, c’è un cielo bianco; nell’aria odore di diesel mal bruciato, cartacce non raccolte unte di pizza al taglio.

Una bella ragazza dagli occhi limpidi e dai fianchi perfetti attraversa la strada.

E’ oggi. E’ qui e queste sono le mie foto.