Le città umanitarie di una guerra senza umanità

Un conflitto esistenziale può essere risolto negando il diritto all’esistenza del proprio nemico?

Siamo quasi alla vigilia di ferragosto, tempo consacrato al cocomero e al pollo coi peperoni, un giorno sideralmente lontano da Gaza, da Netanyahu, dai Due Stati e dai morti per fame e sete. Netanyahu non vuole occupare Gaza, ma liberarla da Hamas. Non vuole sterminare gli arabi, ma renderli liberi. Liberi di andarsene ovunque nel mondo, in qualsiasi posto sia disposto ad accoglierli basta che non sia casa loro. Se il termine Patria ha un senso come “terra dei Padri” allora quella striscia di terra lunga 40 chilometri e larga 10 è Patria per quella gente ,così come l’Italia lo è per noi.

Era il 2 agosto 1847 quando il principe von Metternich, in una lettera inviata al conte Dietrichstein, tirò fuori famosa frase “L’Italia è un’espressione geografica” e quindi, con ogni probabilità, anche noi italiani – a sentire Metternich – non saremo dovuti esistere se non come espressione etnica.

Da allora in molti hanno ripreso il filone della non-esistenza, compresa Golda Meyr, celebrata premier donna e icona dell’Israele laburista, che nel 1969 dichiarò in una intervista al The Sunday Times: «Non esiste qualcosa come un popolo palestinese. Non è che siamo venuti, li abbiamo buttati fuori e abbiamo preso il loro paese. Essi non esistevano». Nati su una terra che, a detta di molti israeliani, non è mai stata la terra dei loro padri, a quei due milioni di bombardati, assetati e affamati rimane l’unico sogno di voler semplicemente vivere, respirare, mangiare, innamorarsi, litigare. E questo lo si può fare in qualsiasi posto del mondo, non c’è bisogno di una Patria.

Così avrà di certo pensato Netanyahu e gran parte del popolo israeliano che continua a sostenerne lo scelerato agire. Purtroppo, quegli uomini e quelle donne una patria invece la vogliono e la indicano anche. La indicano con le loro capanne, le pecore magre, gli ulivi incendiati, il Padre Nostro e il salat del Maghrib, recitati con il sole alle spalle inghiottito da quel mare che loro, contadini e pastori, hanno sempre guardato con un po’ di diffidenza. Tra le pietre di quella terra che Israele e il mondo dice non appartenergli sanno indicare il luogo dove loro madre ha incontrato per la prima volta loro padre. Per me, nato da genitori umbri, Patria è l’odore del bosco all’inizio dell’autunno, il gorgogliare del caffè al mattino, il sentore di cipolla soffritta che arriva mentre passeggi per strada. È ogni colle con il suo campanile e le madonnine scolorite al bivio di una polverosa strada di campagna. Ci sono mille modi in cui la Patria parla ai suoi figli e solo a loro. Sono certo che lo stesso avviene anche per questi uomini senza radici che Netanyahu si appresta a deportare in Libia, Sudan o Etiopia.

Non mi va di parlare del 7 ottobre e dei terroristi di HAMAS. Sarebbe stato possibile prima che Israele decidesse di cambiare scala e sterminare non i terroristi, ma un popolo intero. A quel punto qualsiasi ragione decade e qualsiasi simpatia si spegne. I governi d’Europa, compreso il mio, sono nel forte imbarazzo di non poter agire contro questa assoluta iniquità e quel poco che dicono – perché di fare qualcosa non se ne parla – è solo perché l’esecrazione della gente, cioè dei loro elettori, è salita fino alle loro poltrone e non può più essere ignorata. Eppure, basterebbe congelare i contratti per l’invio di armi, avviare sanzioni contro lo Stato d’Israele e molto altro. Come al solito, invece, aspetteranno che la tempesta sia passata, che i morti siano così tanti da divenire una statistica e via verso la nuova emergenza. Eppure basterebbe ricordarsi che viviamo in una repubblica democratica che all’articolo 3 della propria costituzione dichiara che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Già basterebbe questo per guardare con qualche sospetto a uno stato che dal 2018, con un’apposita legge, si definisce come esclusivamente ebraico, più precisamente “Israele è la patria storica del popolo ebraico che ha un diritto esclusivo all’autodeterminazione nazionale”. Quella parola “esclusivo” taglia fuori tutti gli altri, noi compresi e colloca Israele su un altro pianeta rispetto ad ogni altro Paese che definisca cittadini non in base al credo religioso o all’etnia escludendo tutti gli altri. Il fatto che il mio Paese non si faccia forza di questa enorme differenza e si trinceri invece dietro piccole convenienze, opportunità personali, timori inspiegabili o antichi sensi di colpa non mi fa ben sperare per il futuro.

Della sorte di Israele poco mi importa. Quel popolo ha fatto le sue scelte, ha tirato i suoi dadi ed ora seguirà la sua strada che non so davvero dove lo porterà. I palestinesi, i senza-patria, subiranno invece il destino che nella storia è riservato ai deboli e ai perdenti, quello di essere sopraffatti, uccisi e dispersi. È successo agli Armeni; è successo ai nativi americani e a quelli australiani, è successo ai bosniaci di Srebrenitza e – ironia della sorte – è successo anche agli ebrei. Tra un secolo chi si ricorderà più di Gaza? Ma in attesa che il tempo e l’oblio facciano il loro corso, vorrei che il mio paese e quelli che gli somigliano avessero uno scatto di dolorosa alterità. Facessero sentire forte il “Noi non siamo come voi!”.

Sulla porta del castello di Boeseleger si legge il motto di quella antica e nobile famiglia tedesca che si oppose ad Hitler pagando un prezzo altissimo. “ETIAMSI OMNES, EGO NON” E’ una frase presa dal Vangelo di Matteo: e significa “Anche se tutti (faranno o diranno o sosterranno l’iniquità) io no”. È una chiamata a dissociarsi concretamente da quando accade ora e da quando inevitabilmente accadrà a breve. Della salvezza dello Stato ebraico sono responsabili solo i cittadini di quello stato, ma della nostra siamo responsabili noi.