Ad un mese di distanza quali le ragioni e le conseguenze dell’attacco di Israele all’Iran.
Cosa hanno in comune un nobile genovese, un frate faentino vissuti nel XIII secolo e Donald Trump? Se non fosse per Dante direi niente. A farmeli associare sarà stata di certo l’afa indolente di questi lunghi giorni d’estate quando, tra uno sbuffo e una sventolata, sono riaffiorati sparsi ricordi di altre estati, quelle, ad esempio, vissute sempre in spiaggia, o “giù ‘l mare” come diciamo dalle mie parti. A quel tempo, nelle grigie mattine dell’inverno, a noi della III A del liceo “Livio Cambi” di Falconara Marittima il professor Bello infliggeva l’ennesima dettagliata lettura della Divina Commedia. Conservo ancora quei tre volumi bianchi, con la cornice rossa, dell’edizione La Nuova Italia-Firenze a cura di Natalino Sapegno. Stropicciati, sottolineati e con qualche dichiarazione d’imperituro amore verso la bella ragazza del secondo banco e di odio giurato a Dante e alla sua progenie “per omnia secula seculorum”.
Incuranti degli oltraggi giovanili quelle pagine conservano e tramandano ogni esempio di ciò che nella vita degli uomini sia giusto e cosa, al contrario, sia profondamente ingiusto ed ecco che Dante, in quello che mia mamma avrebbe definito “lo sprofondo dell’Inferno”, sistema i traditori degli ospiti e degli ambasciatori. Laggiù, al nono cerchio. Il loro è un peccato così grave e definitivo che appena lo si è commette la povera anima del colpevole precipita in fondo all’Inferno, anche se il corpo è ancora in vita, ”… e mangia, e beve, e veste panni”. Questo era accaduto appunto al genovese Branca Doria e al faentino Frate Alberigo: essere uomini ancora vivi, ma senza anima. Dopo sette secoli la Tolomea rischia anch’essa il sovraffollamento, ma sono certo che un posticino per Trump l’hanno comunque trovato.

Come definire, infatti, se non traditore degli ospiti colui che nel momento stesso in cui sta trattando su una materia delicatissima, appoggia, coordina, arma e sostiene l’azione militare di un suo sodale? È pur vero che già nel 1914 l’allora cancelliere tedesco Bethmann-Hollweg, in un colloquio con l’ambasciatore britannico, aveva definito i trattati internazionali semplici “pezzi di carta”, ma contavamo che dopo cento anni e due guerre mondiali si fossero fatti passi avanti. Evidentemente ci sbagliavamo.
Di certo Ali Shamkhani, consigliere politico del leader iraniano Ali Khamenei e capo delegazione ai colloqui USA-Iran in Oman, non aveva capito in quali mani s’era consegnato. Confidando nell’uso in vigore fin dai tempi di Olimpia che voleva gli ambasciatori al riparo da ogni offesa, Shamkhani aveva creduto di partecipare ad un vero negoziato con il più alto rappresentante dell’Occidente, Occidentalis Libertatis Defensor, esportatore della democrazia, custode dei valori e dei diritti universali della persona umana e, soprattutto, protector universalis liberi mercatus più altri titoli a scelta. Certo che, pensando al biondo bananone del Donaldo e alla sua leadership in continua oscillazione tra l’umorale e il paranoico, tutti questi titoli suonano per lo meno inappropriati, ma sono appunto le medaglie con le quali il Presidente Biondo-che-fa-impazzire-il-mondo si presenta al resto del pianeta.

Povero Shamkhani, un missile israeliano l’ha svegliato dall’illusione di parlare con persone serie, consegnandolo, forse, (le notizie circa la sua morte non sono poi certe) al paradiso di Allah. Nello stesso giardino di delizie custodito da angeli, dove scorrono copiosi fiumi di acqua pura e ogni albero dona frutti abbondanti, avrebbe potuto imbattersi in Sayed Armaki, scienziato di punta del programma atomico, nonché in sua moglie, suo figlio di cinque anni, le sue due figlie di quindici e otto anni accompagnati tutti dai suoceri. Per gli stessi giardini punteggiati di splendidi palazzi passeggeranno gli altri ottanta tra uomini, donne e bambini la cui morte è stata ritenuta necessaria per eliminare Hossein Salami, comandante dei pasdaran, disintegrato insieme alla palazzina dove viveva. La lista dei passeggiatori per i prati dell’Eden si allunga poi con alti ufficiali, funzionari di governo e scienziati uccisi a decine e decine nelle loro case senza alcuna cura se questo volesse significare la morte per i loro familiari o per i vicini di casa. In tutto un migliaio di “danni collaterali”. Che vuoi che importino.

A un mese dalla fine della guerra israelo-iraniana (13 -24 giugno 2025) viene da chiedere quali siano gli obiettivi raggiunti da chi la guerra l’ha voluta e quali quelli che sono stati mancati e che probabilmente saranno il motivo scatenante della prossima spedizione. A premessa di questa che non vuole essere altro che una riflessione su fatti di dominino pubblico, reperibili con una certa facilità dalle open sources che gravitano in internet, c’è da richiamare alla mente l’humus su cui appoggiano i due contendenti. Iniziamo dunque con l’aggredito: la Repubblica islamica dell’Iran.

Tanto per evitare figure analoghe a quelle patite dal senatore repubblicano Ted Cruz, intervistato nel giugno scorso dal giornalista Tucker Carlson, sarà bene richiamare qualche dato di base. Il povero senatore, infatti, a fronte di tanto sbraitare per un diretto intervento armato americano contro l’Iran, aveva dimostrato di non sapere neppure dove fosse quell’Iran che voleva distruggere. Purtroppo per il senatore Cruz come il Molise anche l’Iran esiste e forse da prima della stessa Campobasso.
Si tratta di un paese che si estende per 1,65 milioni di chilometri quadrati – vale a dire più di cinque volte l’Italia e settantaquattro volte Israele. Una particolarità questa da tenere a mente. L’Iran che oggi confondiamo spesso con l’Iraq è uno stato-nazione fin dagli inizi dell’800. Nulla a che spartire con gli altri stati della regione i cui confini sono stati tracciati con squadra e righello da Gran Bretagna e Francia alla fine della Prima guerra mondiale.

Cosa vuol dire? Vuol dire che gli iraniani sono in sintonia completa con quella che sentono essere la loro terra. Una Patria persiana stabilita entro confini riconosciuti da secoli come tali dai suoi stessi vicini. Chi sono, dunque, gli iraniani dei quali il povero senatore Cruz ignorava l’esistenza? Innanzi tutto quanti sono. Più o meno 91 milioni, vale a dire dieci volte più numerosi degli israeliani e anche questo è un fatto che in guerra è sempre bene non sottovalutare.
91 milioni di iraniani sono dunque tutti omogenei tra loro? Certamente no. Solo il 60% della popolazione può dirsi propriamente persiana o fàrsi, discendente cioè dalle antiche tribù ariane ed elamite che si stabilirono da quelle parti nel II millennio a.C. Quella fàrsi è una stirpe indo-europea e non semitica e anche la loro lingua ha poco o nulla a che vedere con quelle semitiche o turcofone. Qualche esempio per meglio comprendere questa vicinanza. In lingua fàrsi “uomo” si dice “mahard” che suona molto simile al “man” delle lingue germaniche europee, così come “dochtar” – figlia, non è poi tanto lontana dalla “doughter” britannica e si potrebbe andare avanti. Anche in merito alla religione che noi sbrigativamente liquidiamo come “musulmana” i persiani fanno storia a sé.

Un tempo seguivano gli insegnamenti del profeta Zoroastro, predicatore di una delle prime religioni monoteiste contemporanea se non precedente all’ebraismo. Solo dopo la conquista araba, avvenuta quando in Italia si insediavano i Longobardi, si convertirono obtorto collo all’Islam del Profeta Maometto. Lo fecero però a modo loro, non aderendo al credo dei conquistatori, quello sunnita, ma inventandosene uno tutto proprio, lo sciismo; tanto per mantenere chiara la differenza tra loro e gli arabi.
Torniamo però agli iraniani di oggi. Il secondo gruppo etnico è rappresentato dagli Azari o Azeri. Sono più o meno il 16% della popolazione e discendono da quella parte dell’impero persiano che chiamiamo oggi Azerbaijan. A grandi linee possiamo assimilarli alle popolazione turcomanne di Azerbahijan, Turkmenistan e, ovviamente, Turchia. Sono turchi dunque? In parte sì, ma di religione sciita e non sunnita. Sunniti sono invece i Curdi che rappresentano un’etnia e una cultura a sé stante. La parte che vive in Iran ammonta più o meno al 10% del totale. Il resto dei curdi vive o sopravvive tra Turchia, Iraq e Siria. A completare il mosaico iraniano si aggiungono un 2% di Arabi, che da quelle parti chiamano Bandari, un 2% di Baluci e ben un 6% di Luri, un antichissimo popolo nomade che abita l’estremo oriente iraniano da prima dell’invasione persiana del 3000 a.C. Tutto questo per sottolineare cosa? Che l’Iran di oggi come la Persia di ieri è sempre stata uno stato-nazione multietnico dove il gruppo dominante, quello fàrsi, è riuscito a stabilire una convivenza più o meno pacifica con tutte le altre etnie senza indulgere in politiche troppo discriminatorie. La stessa Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei, è di origine azera mentre l’attuale presidente Masoud Pezeshkian è di padre azero e madre curda. Insomma, in un Paese dove gruppi etnici, linguistici e religiosi convivono e si fondono da oltre mille anni pensare di spingere sul pedale dell’oppressione delle minoranze per scatenare la rivolta contro il regime è per lo meno ottimistico e di certo antistorico.

Altrettanto fallace è pensare che la Repubblica islamica si regga unicamente sugli odiosi strumenti della tirannia religiosa. In base a questa premessa ci è stato raccontato che il popolo iraniano non avrebbe visto l’ora di liberarsi dell’oppressiva dittatura teocratica che lo domina dal 1979. Sarà poi vero? La risposta sta proprio in quella data: 1979. E’ l’anno della rivoluzione che portò al rovesciamento dello Scià Mohamed Rheza-Palahvi, grandissimo amico dell’Occidente e soprattutto di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia e in particolar modo delle loro multinazionali del petrolio.

Oggi la parola “Savak” non dirà nulla a nessuno, ma provate a pronunciarla davanti a un iraniano di una settantina d’anni. Quello è, infatti, il nome della feroce polizia segreta dello scià, colpevole di migliaia di omicidi, commessi ben prima e meglio di quanto sapranno poi fare pasdaran e basiji. Eppure lo Scià è stato rovesciato a furor di popolo e gli ayatollah sono ancora lì. Qual è il punto? Che nessun regime, da quello dello scià a quello di Ceausescu, passando per Stalin e Hitler è mai riuscito a mantenersi a galla solo con la paura. Piaccia o meno ogni regime, compreso quello della Repubblica islamica, deve poter godere di un generalizzato consenso. I cittadini oppressi che intendiamo liberare e consegnare al nostro stile di vita occidentale magari è vero che storcono il naso su molti aspetti del loro occhiuto e repressivo regime, ma ricordando il recente passato e guardandosi attorno pensano che il loro sia, in fondo, il male minore.
A gettare un occhio a quanto è successo all’Iraq, alla Siria, al Libano, alla Libia o all’Afghanistan – tutti Paesi “liberati” dall’Occidente – a Teheran e d’intorni avranno pensato che, forse, era meglio tenersi stretti gli ayatollah che qualcosa di buono, nel frattempo, erano pure riusciti a farlo. Ma ammettiamo pure che davvero gli iraniani non vedessero davvero l’ora di bere caffè da Starbucks, divorare pork ribs, tracannando una Budweiser gelata e tifando per i Red Socks, il metodo scelto da Israele e Stati Uniti per realizzare l’iranian dream lascia un tantino perplessi. Mai nella storia , infatti, un popolo ha accolto a braccia aperte coloro che lo avevano bombardato distruggendo vite e proprietà. Lo so che state pensando all’Italia liberata dagli Alleati. Fate bene, ma a quel tempo noi eravamo contestualmente occupati, e in che modo, dai soldati di Hitler e tra le SS che rastrellavano e impiccavano e gli americani che dopo aver bombardato e ucciso distribuivano sigarette e cioccolata cosa pretendevi che scegliessimo? E così, peraltro, è stato per tutta Europa. Peccato che nel frattempo nessuno abbia avvisato Donaldo o Netanyahu che a Teheran non c’erano le SS del Obergruppenführer und General der Waffen-SS Karl Wolff.

A beneficio del Senatore Cruz è opportuno quindi ricordare come l’Iran di oggi, malgrado quarant’anni di sanzioni, è certo un Paese per molti versi arretrato, ma è comunque riuscito a costruirsi un’economia differenziata e più o meno autosufficiente. Nonostante il paese sia uno dei principali produttori mondiali di petrolio, il settore petrolifero rappresenta, infatti, solo il 23% del PIL del Paese. Il maggior contributo è dovuto al settore dei servizi che rappresenta circa il 50% del totale. All’interno del comparto “servizi”, i settori più importanti sono l’immobiliare e i servizi specializzati e professionali (14 %); il commercio con il 12% i servizi pubblici con il 10%. L’industria, la manifattura e l’estrazione mineraria costituiscono il 20% mentre l’agricoltura supera di poco il 10%.
Per di più quarant’anni di sanzioni hanno comunque obbligato Teheran a provvedere finché possibile da solo alle sua svariate necessità. Ciò ha portato allo sviluppo di un’industria diffusa e di livello medio-basso ma senz’altro maggiormente diffusa e di qualità migliore di qualsiasi paese confinante ad eccezione della Turchia. L’Iran di oggi gode dei vantaggi di una rete di ricerca scientifica di livello mondiale anche grazie alle oltre 300 università del Paese dove si formano un numero di laureati in “scienze dure” (matematica, fisica, ingegneria, etc.) superiore percentualmente a quello degli Stati Uniti. Tutto questo per dire cosa? Che l’Iran è un osso molto più duro di Hezbollah del Libano, della Siria baatista di Assad, degli Houthi dello Yemen o dei palestinesi di Gaza. Un osso al quale Israele ha tuttavia creduto di poter applicare lo stesso trattamento riservato a questi ultimi.
Eccoci dunque al secondo degli attori in causa: Israele. Come si è fatto per l’Iran è bene richiamarne gli elementi di maggior rilevanza sotto il profilo politico-militare. Innanzi tutto parliamo di estensione, perché in guerra e non solo le dimensioni contano e non poco. Israele, pur nella difficoltà di conteggiare o meno i territori sottratti a palestinesi e siriani ha un’estensione di meno di 21.000 chilometri quadrati, vale a dire più piccola dell’Emilia Romagna ed è abitata da 9,5 milioni di cittadini. Ecco dunque il secondo fattore militarmente rilevante, la demografia. Dei 9,5 milioni di israeliani ben 2 milioni sono arabo-israeliani, vale a dire non-ebrei (tra questi la maggioranza è musulmana, ma ci sono anche molti cristiani, drusi, armeni, etc) e altri 1,3 milioni sono sì ebrei, ma haredim, vale a dire credenti ultra-ortodossi. Questi ultimi, come la quasi totalità degli arabo-israeliani ad eccezione dei drusi, non prestano servizio in quella che è l’unica istituzione vitale per Israele: le forze armate o, come si usa dire di questi tempi, la Israel Defense Force.

La legge che regola la leva obbligatoria in Israele – il cosiddetto sadir – prevede che questo sia obbligatorio per tutti i cittadini dello Stato d’Israele (a meno delle due eccezioni appena richiamate), sia che vivano in Israele, sia che siano israeliani ma residenti all’estero. Vale lo stesso per coloro che hanno una seconda cittadinanza, ad esempio italiana o tedesca anche se risiedono regolarmente all’estero. Con diversi aggiustamenti la legge sulla leva viene applicata anche ai residenti regolarmente soggiornanti in Israele, anche se non cittadini israeliani. L’obbligo del servizio viene applicato ad ogni persona idonea al servizio di età compresa tra i 18 e i 29 inclusi. Il servizio militare per i maschi ha durata triennale e per le femmine biennale, tuttavia, la durata della ferma può variare se si espleta servizio come ufficiale o nelle forze speciali. Durante il periodo di leva il personale che lo desidera può rimanere in servizio fino all’età del pensionamento, il quale varierà in base al ruolo e al grado ricoperto. All’atto del congedo I militari entrano di diritto a far parte delle unità corrispettive di riserva mantenendo ruolo, grado e specialità. A questo punto il cittadino posto in congedo avrà l’obbligo in tempo di pace di espletare un richiamo alle armi ogni anno. Il richiamo varia dai 15 giorni fino al mese a seconda dei ruoli ricoperti. I richiami servono per il mantenimento di capacità di combattimento o per l’aggiornamento tecnologico sui sistemi in uso alla forza armata. Ad oggi sono circa 180.000 i soldati attivi che rientrano nel personale di leva ai quali si aggiungono 350.000 riservisti.
Se si escludono gli arabi-israeliani, gli haredim, gli inidonei per motivi psico-fisici, gli obiettori di coscienza, i renitenti alla leva, i vecchi e i bambini la base di reclutamento supera a stento i 2 milioni di individui gran parte dei quali sono gli stessi che permettono il quotidiano funzionamento economico, produttivo e burocratico dello Stato.

In base ai dati dell’Istituto internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), nel 2024 Israele ha speso l’esorbitante cifra di 173 miliardi di dollari per il comparto difesa&sicurezza. A questi si aggiungono aiuti militari statunitensi per un valore totale di circa 3,8 miliardi di dollari all’anno in base ad un accordo decennale tra i due Paesi per complessivi 38 miliardi di dollari. Una quantità di denaro imponente e non paragonabile a quella a disposizione delle forze armate degli Stati che Israele considera, in un modo o nell’altro, nemici.
Forze armate eccezionalmente addestrate, ben comandate, ben equipaggiate e, soprattutto, estremamente motivate a combattere sono, dunque, il punto di forza dello Stato ebraico. Ma non l’unico. Il secondo e di certo ancora più importante è il finora indiscusso e assoluto appoggio degli Stati Uniti a Israele; “whatever It takes”, avrebbe commentato Draghi. Il legame tra Washington e Tel Aviv, qualsiasi cosa accada, qualunque sia la direzione da prendere e i costi da sostenere, lo fanno assomigliare più ad un patto di sangue tra fratelli che ad un’alleanza politico-militare come, ad esempio può essere la Nato. Volendo estremizzare il concetto, Israele e gli Stati Uniti militarmente sono. Dunque, la stessa cosa, almeno fino a prova contraria.

Un super-esercito e l’alleanza con la maggiore potenza militare del pianeta sono, dunque, i due fondamentali punti di forza di Israele. E non ce ne sono altri. Il Paese infatti ha una popolazione neppure paragonabile a quella dei Paesi che lo circondano i quali, chi più, chi meno, sono tutti ostili all’esistenza stessa di uno stato ebraico. Tanto per parlare di numeri, oltre a circa 5 milioni di profughi e deportati palestinesi, attorno alle frontiere o all’interno nello spazio geo-politico di Israele vivono 120 milioni di egiziani, 11,5 milioni di giordani, 6 milioni di libanesi, 25 milioni di siriani, 88 milioni di turchi, 45 milioni di iracheni e 92 milioni di iraniani. Troppi per non preoccupare il governo israeliano, qualunque esso sia.
Si è accennato in apertura di questa riflessione al valore militare dello spazio ed è bene tornarci sopra per evidenziare quali siano le conseguenze sul piano pratico. Israele non ha, infatti, alcuna profondità strategica. Detta in altri termini in caso di guerra non può pensare di cedere territorio per guadagnare tempo. Per TSAHAL ogni battaglia è dunque la battaglia per la vita e questo concetto è perfettamente chiaro a tutti i militari, dal Capo di Stato Maggiore all’ultimo carrista di merkawa. Sempre questo fattore conferisce all’esercito di Israele una motivazione senza pari che viene utilizzata e ampliata attraverso un addestramento intensissimo e realistico, un’attenta selezione dei comandanti, un costante affinamento delle tecniche di combattimento e delle tattiche di impiego delle unità fino ai minimi livelli.

Parte fondamentale della potenza bellica di Tel Aviv va anche ricercata nel suo formidabile comparto industriale militare, in grado di produrre quasi di tutto in materia di armamenti, mezzi ed equipaggiamenti. E quel tutto è peraltro di altissima qualità.
Malgrado poco si possa chiedere di più ad Israele che dotarsi di Forze armate all’avanguardia e sempre pronte al combattimento il Paese deve comunque fare i conti con ineludibili elementi di realtà che ne segnano anche la debolezza. Alla limitata base di reclutamento dello Stato ebraico e della traboccante preponderanza demografica dei suoi avversari abbiamo già accennato, ma introduciamo una nuova riflessione legata all’estensione territoriale. Le dimensioni stesse di Israele non permettono né il diradamento né la ridondanza di infrastrutture civili essenziali (porti, aeroporti, raffinerie, centrali elettriche, ospedali, sedi governative, linee elettriche, trasporti, etc), così come di quelle militari (basi aeree, caserme, centri di addestramento, rimessaggi di mezzi, depositi carburanti, polveriere…). Insomma, un potenziale nemico che sia in grado di colpire a distanza gli obiettivi paganti sono tutti lì, in bella vista.

Questa semplice constatazione è alla base del più completo, sofisticato e costoso sistema di difesa aerea al mondo, quello che comunemente è identificato come “iron dome” ma che in realtà è un sistema molto, molto più complesso di cui “iron dome” è solo una parte e neppure la più rilevante. Con le batterie di missili Arrow 3 Israele è, infatti, in grado di intercettare missili balistici nemici già nello spazio extra-atmosferico. Più in basso, a quote intermedie, si stende la rete di difesa aerea denominata Kel’al David o “fionda di Davide” che si occupa di intercettare droni, missili balistici a medio e corto raggio o missili da crociera. Infine l’Iron Dome vero e proprio, pensato per proteggere il territorio di Israele dai razzi Quassam sparati dalle batterie palestinesi e da qualche colpo di mortaio, insomma roba piccola e lenta. In caso di necessità lo spazio aereo di Israele può inoltre contare, quasi sicuramente, sull’attiva collaborazione dell’aeronautica giordana, di quella di molti paesi del Golfo oltre che della Gran Bretagna, della Francia e – naturalmente – degli Stati Uniti i quali sono in grado di schierare una capacità contraerea a medio e lungo raggio pari o superiore a quella israeliana. Tutto questo non è però sufficiente a garantire la completa sicurezza del territorio, soprattutto quando ad essere lanciata non è una coppia di missili e una manciata di droni, ma decine di missili e centinaia di droni in grado di saturare le difese aeree e qualcosa passa per forza. Se ne sono accorti bene gli abitanti di Israele nel corso di questa breve guerra quando i missili di Teheran colpivano in discreto numero il territorio dello stato ebraico malgrado la presenza della migliore difesa aerea del mondo.

Poca gente, poco spazio, un grande alleato e molti nemici hanno, dunque, plasmato nei decenni la strategia non solo militare di Israele. Questa può essere così sintetizzata: colpire per primi in modo talmente rapido e distruttivo da impedire che il nemico abbia il tempo di reagire e magari la capacità di avviarsi ad una guerra di lunga durata. Una guerra lunga è, infatti, la bestia nera di Tel Aviv. Fino ad oggi l’appoggio incondizionato degli Stati uniti e 200 bombe atomiche con la Stella di Davide – peraltro mai dichiarate – garantiscono qualsiasi governo israeliano dall’arrivare a quel punto.

La “pace attraverso la forza” è però solo una parte dell’attuale strategia israeliana nella Regione e neppure la più interessante. Ve n’è un’altra, più profonda e complessa che è giunta l’ora di richiamare. Lo facciamo a partire dalla testimonianza di quello che di certo non può essere considerato un pericoloso sovversivo; il generale Wesley Clark, già comandante della missione USA in Afghanistan e successivamente Comandante Supremo delle Forze NATO in Europa (SACEUR). Il generale Clark nel corso di un’intervista reperibile comodamente su youtube riferisce di una sorprendente conversazione avuta al Pentagono con un suo ex-dipendente due settimane dopo l’11 settembre 2001, vale a dire venticinque anni fa. In quella conversazione Clark ebbe la notizia che gli Stati Uniti del presidente George W. Bush avevano deciso per un riassetto dell’intero Medioriente attraverso la distruzione di sette Stati dell’area. Segnatamente l’Iraq, la Siria, il Libano, la Libia, la Somalia, il Sudan e da ultimo l’Iran. Quello che successivamente lo stesso Clark si era affrettato a definire “un pensiero in libertà, un attimo di riflessione” prevedeva azioni destabilizzatrici, attentati, pressioni economiche e guerre da sviluppare nei successivi cinque anni, cioè entro il 2006. Sebbene la tabella di marcia non sia stata rispettata e dando per buono che quelli furono davvero solo pensieri in libertà resta il fatto che tutti i paesi citati nella conversazione, ad eccezione per ora dell’Iran, non ci sono più.

Sarà certo un caso, ma quel che traspare è che dopo Bush junior, anche Obama, Donaldo Belli-Capelli prima edizione, Biden e ancora Donaldo Belli-Capelli seconda edizione abbiano perseguito una strategia volta a ridisegnare completamente il Medioriente così come era emerso dal lavoro di squadra e righello degli accordi Sykes-Picot del 1915. Allora, durante una riunione del Gabinetto di guerra a Londra, il diplomatico inglese Mark Sykes aveva pronunciato una frase divenuta emblematica: «tirare una linea dritta fra Accra e Kirkuk» che doveva rappresentare il limite settentrionale di un ipotetica colonia inglese nel medio-oriente.
Dal 1915 molte cose sono cambiate. La Gran Bretagna e la Francia da tempo non sono più un impero e la loro influenza è in continua picchiata. Gli Stati Uniti, anche se con sempre maggiori difficoltà, sono ancora la prima potenza mondiale e dal 1948 in quell’area c’è lo Stato di Israele. Ridisegnare antichi confini, riposizionare rapporti di forza, stabilire nuovi equilibri è la strategia che gli americani perseguono nell’area da oltre venticinque anni. Per ammissione dello stesso Donald Rumsfeld – ministro della difesa sotto l’amministrazione di Bush figlio e una delle menti dell’invasione americana dell’Iraq – l’idea strategica di lungo periodo di Washington e Tel Aviv era di raggiungere lo scopo indebolendo o meglio annientando l’asse sciita con a capo l’Iran, possibilmente frantumandone l’unità statale attraverso una sapiente opera di balcanizzazione, premendo in primo luogo sulle diverse etnie che ne compongono la popolazione. Una volta annichilito il cosiddetto “asse della resistenza”, gli equilibri della Regione sarebbero stati gestiti dall’asse sunnita, con a capo l’Arabia Saudita, da sempre fedele alleato di Washington, e da Israele al quale sarebbe toccato il compito di custode della sicurezza in forza dell’indiscussa primazia militare e della fratellanza con il potente alleato americano.

Questa strategia calza come un guanto con quella immaginata anni prima dal teorico del liberal-imperialismo Zbigniew Brzezinski (Varsavia 1928 – Falls Church 2017), da alcuni considerato il più importante teorico conservatore di tutta la seconda metà del XX secolo. Per Brzezinski – consigliere alla sicurezza nazionale con la presidenza Carter – l’allora Unione Sovietica e la Cina, o meglio, tutto il blocco euroasiatico, doveva essere smembrato e indebolito per consentire l’emergere di una sola potenza planetaria, vale a dire gli Stati Uniti. L’arma per realizzare il progetto sarebbe dovuta essere la‘’tribalizzazione’’ dei paesi nati o ricostituitisi dopo la Seconda guerra mondiale attraverso l’uso massiccio della sovversione, del terrorismo politico ma anche del separatismo etnico e religioso. In questo contesto il Medioriente allargato non poteva certo essere sottratto al piano. Si trattava pur sempre di controllare i maggiori giacimenti di gas e petrolio del pianeta e le rotte marittime che vi adducono. Da quando attorno al 2010 Washington ha poi raggiunto una certa indipendenza e autonomia energetica, il problema si è trasformato nel rendere più difficile possibili l’accesso a questa risorsa indispensabile alla potenza che nel frattempo era emersa dalle nebbie della fine della storia: la Cina. Si tratta pur sempre dell’antico “divide et impera” di romana memoria. Anche in questo caso non possiamo dire che non ci fossero stati segnali estremamente chiari sul percorso che Stati Uniti e Israele intendevano seguire. Uno di questi segnali è il cosiddetto piano Yinon. Il nome deriva da un articolo scritto appunto dall’israeliano Oded Yinon e apparso nel 1982 sulla rivista Kivunim con il titolo “Una strategia per Israele negli anni ’80“. Nell’articolo veniva chiaramente messo in evidenza come la sicurezza di Israele sarebbe dipesa in gran parte dalla capacità dello Stato ebraico di dissolvere le entità statali confinanti, riportandole a livello clanico e tribale, agendo sulle divisioni tradizionali, sulle discordie religiose, sulle differenze etniche e su tutti quei fattori in grado di dividere e indebolire paesi come Siria, Libano, Iraq, Turchia e, naturalmente Iran. Allora il ricordo della guerra dello Yom Kippur del 1973 era ancora dolorosamente vivo in Israele. Quella guerra aveva. Infatti, dimostrato come Stati arabi ben armati, coordinati e decisi a combattere fino in fondo fossero perfettamente in grado di portare una minaccia esistenziale ad Israele. Inoltre aveva anche reso palese come senza il fattivo e diretto intervento americano la potenza israeliana fosse destinata a decadere rapidamente. La soluzione quindi, oltre che riarmarsi di più e meglio, era di dissolvere gli Stati confinanti oppure renderli più mansueti.

Questo avvenne con l’Egitto nel 1979 con la firma degli accordi di Camp David seguiti nel 1994 da quelli con il regno di Giordania. Tutti gli altri che potrebbero essere sommariamente definiti come i nemici irriducibili dovevano essere dissolti.
Se ora si prende in mano una mappa del Medioriente e si indicano l’area del Mar Rosso, con lo stretto di Bad-El-Mandeb e il canale di Suez, e il golfo persico con lo stretto di Hormuz, apparirà chiaro come tutti gli Stati citati da Clark nella sua bislacca conversazione, o meglio quelli che per una ragione o per l’altro non hanno fatto una decisa scelta di campo pro-americana, oggi non hanno più la forza di compromettere la sicurezza dell’area. Tutti ad eccezione di uno: l’Iran.
Come si vede non si tratta di un’idea dell’ultimo minuto di Netanyahu, ma la sua visione egemonico-securitaria si inserisce in un strategia che a voler essere prudenti abbraccia quarant’anni della storia di questa tormentata parte del mondo.

La questione che oggi appare con assoluta evidenza è che in questi quarant’anni tale strategia non è mai mutata nei suoi paradigmi mentre a cambiare radicalmente è stato il contesto in cui ora si tenta caparbiamente di applicarla. Rispetto agli anni ’80 del secolo scorso la Cina da paese quasi sottosviluppato è passata prima ad essere la cosiddetta “fabbrica del mondo” e oggi una potenza globale seconda – forse –solo agli Stati uniti. Una potenza che ha un bisogno vitale di energia. Accanto alla Cina non possiamo non vedere l’India che con oltre un miliardo e 300 milioni di abitanti ambisce a divenire una potenza planetaria. New Delhi, potenza atomica e con un’economia in rapido sviluppo non si accontenta più di essere l’ex “gioiello più prezioso della corona” come veniva definita al tempo della dominazione britannica. E poi la Federazione russa che è riuscita a uscire dalla palude mortale formatasi con il crollo della Unione sovietica e la fine della nefasta era Eltsin. Certo oggi Mosca è ben lontana dall’essere di nuovo la superpotenza planetaria che Putin si immagina, ma è pur sempre in grado di schierare oltre 5.000 testate atomiche e la sua stessa estensione gli assegna un ruolo tutt’altro che di secondo piano nel prosieguo del secolo. Paesi come Brasile, Sud Africa, Indonesia, ma anche Egitto e Arabia Saudita, riuniti sotto l’iniziativa BRICS, stentano a riconoscere senza fiatare il dominio americano. E poi c’è l’Africa sub-sahariana che cacciati inglesi e francesi, storiche potenze coloniali, non vede di buon occhio gli americani mentre apre le porte, anzi le spalanca a russi e cinesi.

Oggi giorno Sir Halford Mackinder – il geografo inglese che nel 1904 aveva sviluppato la teoria geopolitica di una Heartland (l’impero zarista) circondato e contenuto da una cintura di stati che ne impediva lo sbocco ai mare – sarebbe forse costretto ad ammettere che la possibilità per l’Heartland di estendersi fino alla Cina e alla Penisola indiana, vale a dire fino all’indo-pacifico è tutt’altro che improbabile. La catena di stati che circondavano e circondano l’enorme massa euroasiatica, il cosiddetto Rimland per più di un secolo è stata sotto l’influenza più o meno diretta dell’impero britannico prima e degli Stati Uniti poi. Europa orientale, Africa settentrionale, Medioriente, Penisola Araba, India, Indocina e infine Cina, Giappone e Corea sono gli anelli della catena che nell’idea di Mckinder prima e di quasi tutti i presidenti americani poi avrebbe stretto al collo e prima o poi strangolato l’Orso russo. Nell’idea di Brzezinski ampiamente sviluppata poi dal pensiero neocon anglo-americano oltre alla catena di stati che doveva strangolarla l’Unione sovietica e soprattutto la Russia sarebbe stata sfinita e sfiancata accendendo una serie di piccoli ma continui fuochi che avrebbero costretto Mosca ad accorrere senza un attimo di pausa. E’ la teoria dell’over stretching o sovra estensione che costringe il malcapitato ad impegnarsi al di sopra e al di là delle proprie capacità militari, economiche, industriali, finanziare e diplomatiche fino a provocarne la paralisi e successivamente la morte. Le primavere arabe, le rivolte ucraine, le guerre Cecene, la guerra a Saddam Hussein, il dissolvimento della ex-Jugoslavia fino all’allargamento ad est dell’Alleanza Atlantica possono essere – chi più, chi meno – esempi concreti della strategia anglo-americana. Tuttavia dai tempi di McKinder, di Brzezinski e dei neocon molti di quegli anelli si sono indeboliti, spezzati o semplicemente non si sentono più parte di alcuna catena. In primis, come si è detto, la Cina e l’India e in scala ridotta l’Iran.
Di tutto questo i primi a non volersene accorgere sono proprio gli Stati Uniti che proseguono lungo la loro linea strategica costi quel che costi. Certamente a Washington si sono ben resi conto che l’Aquila americana ha perso qualche piuma e non è più in grado di dettare legge su tutto il pianeta. Ecco che pur mantenendo la stessa linea strategica di contenimento russo e ora anche cinese, hanno bisogno che qualcun altro si occupi di aree del mondo troppo turbolente e energivore per le sempre più limitate risorse americane. La questione ucraina è quindi destinata a divenire un problema essenzialmente dell’Europa occidentale così come il riassetto del Medioriente ha bisogno di qualcuno che possa sostituirsi alla presenza diretta degli Stati uniti, ormai concentrati da tre decenni sul confronto e forse sullo scontro con la repubblica popolare cinese per il predominio sull’Indo-pacifico.

Dopo un lungo volo siamo infine tornati alla questione Iran e Israele e alla loro breve guerra di soli dodici giorni consapevoli, mi auguro, che si tratta di una faccenda complessa che viene da lontano e che ha molti, anzi troppi motivi e cause per essere ricondotta alla sventolata minaccia della bomba iraniana. Viene però da chiedersi perché proprio ora Israele abbia deciso di partire in quarta sparando a tutto e a tutti.
A dragare internet si scopre, infatti, che Netanyahu, già nel 1995, in una intervista alla rete televisiva americana CBS, metteva in guardia il mondo dall’imminente bomba iraniana e via via così in una sorta di riflesso pavloviano che alla parola “Iran” lo obbligava a rispondere “bomba atomica”.
Anche questa volta la situazione non è apparsa poi diversa dal solito tanto che la stessa AIEA – l’agenzia internazionale che sovrintende al controllo delle capacità atomiche degli aderenti al trattato di non proliferazione nucleare – aveva ribadito in un suo recentissimo rapporto che non c’erano prove che Teheran stesse procedendo alla realizzazione di una bomba. In aggiunta anche la CIA e la National Security Agency americane confermavano che gli Ayatollah non stavano sviluppando alcunché di illegale. Allora come mai si è rischiata la guerra regionale tra Iran e Israele? Semplice, basta volerla far esplodere, poi un pretesto lo si trova comunque.
Ricordate Fedro e la favola del lupo e dell’agnello? Così pochi giorni dall’attacco il direttore della AIEA, lo svizzero Raphael Grossi, in questo caso nel ruolo dell’agnello, in un suo rapporto se ne era uscito con la seguente frase: “(Teheran) ha abbastanza uranio arricchito per poter realizzare nove bombe“. Oltre oceano Trump, altro agnello, a sua volta sottolineava come la CIA, l’FBI, la NSA e tutte le altre agenzie dell’intelligence più forte del mondo non avevano capito una cippa, ma che lui, in forza del profetico potere del bananone biondo, sapeva che “Teheran has the Bomb”; manco gli fosse apparso in sogno Oppenheimer in persona. Dopo aver inviato un mazzo di rose alla Signora Grossi per ringraziarla della frasetta del marito, Netanyahu, in questo caso il lupo, ha dato l’ordine di scaldare i motori ai suoi F35 ed F22; direzione Teheran.
La domanda di fondo rimane comunque ancora valida. Perché proprio ora visto che nella mente di Netanyahu la bomba, i palestinesi e l’Iran erano tatuati da quarant’anni? Al di là dell’esecrazione unanime per le moltissime vittime israeliane trucidate dai terroristi di Hamas il 7 ottobre 2023 è difficile immaginare che uno Stato come Israele, benché ferito e spaventato, si imbarchi in ben sei guerre contemporanee solo per desiderio di giustizia o di vendetta. Ci deve essere per forza dell’altro. Proviamo a immaginare cosa.
In primo luogo, l’aver intravisto la possibilità di sovvertire il paradigma militare che ha condizionato lo Stato ebraico per oltre settant’anni; quello cioè di essere condannato a vincere tutte le battaglie ma a pareggiare tutte le guerre. Dopo il 7 ottobre Israele ha ritenuto che questo fosse il momento giusto per combattere – per dirla alla Saddam – “la madre di tutte le guerre”; quella che avrebbe garantito di non doverne combattere altre nei prossimi cento anni.

In questo nuovo quadro dinamico e futurista, degno del miglior Giacomo Balla, salta agli occhi per primo il color rosso sangue della questione palestinese. Seguendo una linea che genera da Jabotinsky e dal nazionalismo ebraico degli anni ’20 del secolo scorso e approda al partito Likud di Benjamin Netanyahu, la maggioranza degli israeliani si è convinta – a torto o a ragione – che ogni convivenza con i palestinesi fosse impossibile. Sembra di assistere alla riedizione di quanto accaduto il 28 maggio1868 a Washington quando in una seduta del Congresso il deputato del Minnesota James Cavanaugh, parlando dei nativi americani, se ne uscì con una frase non proprio politically correct :«Io non ho mai visto in vita mia un indiano buono… tranne quando ho visto un indiano morto». Se al posto di indiano mettete oggi “palestinese” avrete un’idea abbastanza realistica di cosa pensa una buona parte dell’elettorato di Netanyahu. Nessun due popoli e due Stati, dunque, e nessuna implementazione degli accordi di Oslo e delle loro aree A, B e C. D’altra parte Hamas, Jahad islamica e la costellazione di sigle che ruota attorno all’irredentismo palestinese non aveva mai dimostrato alcuna disponibilità ad un’integrazione pacifica con Israele e questo ben prima dell’attacco del 7 ottobre. Tra continuare a presidiare campi profughi, attivare check-points, costruire muri di cemento e stendere reti di sensori antintrusione oppure chiudere la partita una volta per tutte Netanyahu ha scelto la seconda opzione. Via i palestinesi, via il problema.
Il modo scelto dal governo di Tel Aviv e che dichiara con sempre meno pudori è uno: cancellare con la forza le enclave palestinesi di Gaza e dei Territori Occupati di Cisgiordania, noti in Israele come le province di Giudea e Samaria e annettersi il tutto. E i palestinesi? Quelli di loro che avranno capito l’antifona e avranno qualche soldo da parte potranno sempre emigrare spontaneamente verso qualche lontano paese disposto ad accoglierli. Quelli che sentiranno troppo la nostalgia di casa ma non saranno davvero pericolosi si potranno integrare all’interno dello stato ebraico insieme agli oltre due milioni di arabo-israeliani e per i più riluttanti ci sarà la fame, il cannone o una sorta di riserve indiane circondate da muri e filo spinato e sorvegliati da coloni dal grilletto facile ed esercito un po’ distratto.A parte il capitolo dell’integrazione sembrerebbe una soluzione copiata pari, pari dal manuale di Radovan Karadžić e Ratko Mladić, specializzati in pulizia etnica in salsa serbo-bosniaca.
Una volta steso il color rosso sangue palestinese sul nuovo quadro del Medioriente non resta che abbozzare qualche evanescente figura a riempire gli spazi vuoti. Via quindi Libano e soprattutto Siria, sostituiti da un tremolante ectoplasma di stato a Beirut e da una nuova e moderna repubblica post-baatista e democratica benevolmente presieduta da un ex tagliagole dell’ISIS e tesserato della bocciofila di Al-Qaeda. All’Iraq ci avevano pensato già vent’anni prima gli americani, alla Libia Obama e le “primavere arabe”.

Per realizzare il piano Netanyahu sembra aver oggi scelto una via multidirezionale. A nord sta conducendo un’offensiva militare contro il Libano volta alla distruzione di Hezbollah come entità politico-militare. Sempre a nord, ma questa volta verso la Siria, mentre il despota siriano Assad non era ancora atterrato a Mosca, ha pensato di occupare una nuova e ulteriore porzione del Golan, forse nella prospettiva di aprire un corridoio che dal Golan risale al nord della Siria per spingersi poi verso il Kurdistan iracheno, l’Azerbaijan e infine il nord dell’Iran. Con tutta evidenza a Tel Aviv pensano davvero in grande, anche se il piano, così come l’ho riassunto, sta preoccupando e non poco un robusto vicino di Israele. La Turchia. Per ora l’IDF si è comunque limitata all’annichilimento di ogni potenzialità militare di quella che per comodità continuiamo a chiamare Siria e a soffiare sulle divisioni interne al Paese. Più a sud l’aeronautica militare israeliana ha condotto attacchi contro il porto yemenita di Hudayda sul mar Rosso e contro altre basi degli Houthi come risposta agli attacchi che questi ultimi continuano a condurre contro le navi mercantili dirette ai porti israeliani, primo fra tutti quello di Eilat. Gli Houthi verosimilmente, rappresentano l’ultimo dei problemi per Tel Aviv che è ancora concentrata sull’offensiva schiaccia tutto su Gaza e sui gazawi nella prospettiva di trasformarla in una sorta di Forte dei Marmi mediorientale. Infine l’ultimo fronte, quello iraniano, dove Netanyahu e la leadership americana hanno creduto e forse ancora credono di poter fomentare un bel colpo di stato per tirar fuori da ogni gioco il Paese degli Ayatollah e potersi finalmente rappresentare al centro del quadro come un rifulgente Grande Israele, uno Stato finalmente con confini netti e un’influenza indiscussa in tutta la Regione.
Quando a New York, nell’aula dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Netanyahu ha sventolato la mappa del nuovo Israele senza più Gaza e senza più i Territori Occupati voleva significare proprio questo. Un nuovo ordine con a capo Israele. E di questo parlava quando con composta solennità pronunciava che: “Non c’è dubbio che gli Accordi di Abramo abbiano segnato l’alba di una nuova era di pace, ma credo che siamo al culmine di una svolta ancora più drammatica, una pace storica tra Israele e Arabia Saudita. La pace tra Israele e Arabia Saudita creerà davvero un nuovo Medio Oriente“.
Che Paesi come la Turchia, l’Iran e persino l’Arabia Saudita per non parlare della Cina siano quindi disposti ad apprezzare il dipinto post Sykes-Picot e cosa tutto da dimostrare, ma nel frattempo bombardiamo. Guerra quindi! Ovunque e contro tutti nell’intesa che, anche se non si riesce a vincere sul campo, si genera una confusione tale e tanta da rendere impossibile nel futuro che Stati e tantomeno gruppi come Hezbollah o Hamas possano più rappresentare una reale minaccia per l’esistenza di Israele. Nel frattempo, in mezzo a tutto il polverone, si può portare a termine il progetto di definitiva risoluzione del problema palestinese.
Quanto accaduto il 7 ottobre ha, dunque, fornito una magnifica opportunità per dare il via al progetto. D’altra parte era dai tempi della prima presidenza Trump che gli USA stavano tentando di assegnare a Israele il ruolo di custode dei propri interessi nell’area e – badate bene – anche di garante della sicurezza di paesi progressisti ed aperti ai diritti umani come l’Arabia Saudita, il Qatar, l’Oman e il resto delle monarchie del Golfo. Sicurezza regionale in chiave anti-iraniana in cambio del riconoscimento di Israele era dunque il nocciolo dei cosiddetti “accordi di Abramo”. Un’idea – forse l’unica – scaturita all’ombra del bananone biondo di Donaldo e che lo stesso porta ancora avanti con una decisione che rasenta la caparbietà. La debolezza internazionale dell’attuale amministrazione Trump e la mancanza di limiti credibili, hanno fatto il resto inducendo Tel Aviv ad “interpretare” la situazione con “futuristico vigore”. Forse troppo.
C’è da rammentare poi la traballante maggioranza che sostiene Netanyahu. Qui troviamo più di qualcuno convinto che Israele debba estendersi dal Nilo all’Eufrate e il povero Netanyahu non ha la forza per convincere o costringere i membri più nazionalisti e razzisti del suo governo ad accettare un atteggiamento più morbido. La stabilità del governo e la sicurezza dello stesso premier dipendono, infatti, dal sostegno di partiti che gentilmente vengono definiti ultranazionalisti o religiosi e che hanno a capo personaggi come Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza il quale esorta il primo ministro a trattare i palestinesi nei termini seguenti: “…è vietato negoziare con loro. La strada è schiacciare, occupare e incoraggiare l’emigrazione volontaria. Solo così sconfiggeremo il terrorismo!” Per non citare un altro campione, Bezalel Smotrich, ministro delle finanze che non perde occasione per sottolineare come “i palestinesi non esistono”.

Il povero Bibi, volente o nolente, per rimanere in sella è dunque costretto a menare colpi da fabbro contro i “nemici di Israele”, quelli veri e quelli solo immaginati. La cosa non sarebbe poi grave se non fosse che essa è condivisa e sostenuta da oltre il 65% dei cittadini israeliani i quali, benché stanchi e provati da quasi due anni di combattimenti, non vedono alternative a combattere ancora su sei fronti. Già perché a fare i conti sulla punta delle dita l’esercito dalla Stella di Davide sta ora combattendo a Gaza, nel sud del Libano, in Siria, nei Territori occupati, nello Yemen e contro l’Iran. Finora nessuno di questi teatri può dirsi chiuso e tutti continuano – chi più chi meno – ad assorbire energie umane e materiali, ma pazienza. Si va avanti. Ricordate quando si diceva che Israele è condannato a combattere guerre violentissime ma brevi? Bene, ora le guerre rimangono violentissime, ma si protraggono per anni. Questa è, finora, la guerra più lunga mai combattuta da Israele che però la prosegue convinto che sarà quella che porrà fine a tutte le guerre. Una frase così l’avevamo già sentita dal presidente americano Woodrow Wilson nel 1919, poi vennero Adolf, Benito, Joseph e sappiamo come è andata.
Per quanto si sia tentato di semplificarla questa rimane comunque una prospettiva complessa dove si intrecciano progetti per un nuovo assetto planetario, cambi di potere, visioni messianiche, colpi di stato, lotte per l’esistenza in vita e piccole meschinità personali, tutti elementi che parzialmente portano a spiegare perché il 12 giugno scorso i jet israeliani abbiano iniziato l’operazione “Rising Lion”, una campagna di bombardamenti aerei contro l’Iran svolta in concomitanza con una serie di omicidi più o meno mirati ad opera di agenti del Mossad operanti nello stesso territorio iraniano. Sebbene Netanyahu l’avesse presentata come un’azione risolutiva e definitiva, ora ben si comprende che non si trattava se non di un tassello di un mosaico ancora molto al di là dall’essere completato.
Ad un mese di distanza dalla sospensione della campagna militare quel che sta iniziando ad emergere è che Israele l’aveva pensata come una sorta di blitz krieg estremamente veloce, violenta e risolutiva, possibilmente con il diretto coinvolgimento statunitense. Tel Aviv si aspettava che l’Iran avrebbe risposto all’inizio in modo scoordinato con tutto quello che aveva e poi sempre più debolmente con quel poco che gli rimaneva. Nel frattempo si sarebbero sviluppate rivolte interne e insurrezioni che in breve avrebbero definitivamente bruciato la barba agli ayatollah. Tuttavia, come ammoniva Von Moltke il vecchio:” nessun piano sopravvive ai primi cinque minuti di guerra” e così è stato anche per quello israeliano. Invece di una reazione scoordinata e rabbiosa e delle rivolte, l’Iran ha risposto opponendo una propria visione del conflitto. Se mi è consentita la metafora pugilistica, come un pugile avanti negli anni e non troppo in forma, Teheran ha pensato prima di tutto a resistere ai primi colpi, puntando a rimanere in piedi al gong del dodicesimo e ultimo round.

Di certo Tel Aviv non poteva giocare la carta della sorpresa strategica. l’Iran si preparava da anni allo scontro con Israele ed anche se preso nel mezzo di un concomitante negoziato con Trump, non era del tutto impreparato. Qualche avvisaglia si era avuta già nel 2024; prima in aprile e poi, più decisamente il 1 ottobre 2024 quando, a seguito dell’omicidio a Teheran di Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, l’Iran aveva risposto lanciando circa 200 tra missili e droni su Israele molti dei quali arrivati a segno.
Teheran era quindi certo di un nuovo attacco israeliano così come era quasi certo di conoscere quali ne sarebbero stati gli obiettivi principali. Primi fra tutti i laboratori, gli impianti e i depositi del cosiddetto “programma nucleare”. Si aspettavano forse un po’ meno che al centro del mirino fossero anche il vertice della Repubblica islamica, i Guardiani della rivoluzione e i siti produttivi del paese e forse credevano che le loro capacità difensive, soprattutto in termini di difesa dello spazio aereo, fossero più consistenti. Invece, dopo solo una settimana di combattimenti l’aeronautica di Israele aveva il controllo dei principali corridoi dello spazio aereo iraniano e l’aeronautica iraniana, già quasi inesistente alla vigilia della guerra, semplicemente non si è neppure alzata in volo. Tel Aviv ha quindi potuto bombardare la TV di stato iraniana, la prigione di Yevin uccidendo un’ottantina di persone compresi una quarantina dei detenuti politici che intendeva liberare, giacimenti petroliferi e impianti per l’estrazione e l’istradamento del gas naturale come quello di Fajir Jam, dove passa il 75% del gas degli ayatollah. Ma non basta. Ha eliminato quasi completamente e in un singolo giorno il vertice dei Pasdaran, i Guardiani della rivoluzione che sono, anzi erano, al vertice dell’apparato di sicurezza e repressione del regime iraniano. Sono stati uccisi anche 17 ingegneri nucleari, quasi tutti con le loro famiglie e vicini di casa e, naturalmente sono stati pesantemente bombardati i siti nucleari di Natan, Isfahan, Arak, Awad, Ilam, Kermanshah, Tabrix e la città santa sciita di Qom, nei pressi della quale si trova il sito iper-protetto di Fordow.

Letti così sembrano dati che parlano di una sconfitta di enormi proporzioni, e così la sta vendendo Netanyahu, ma in cuor suo sa che non è così. Riprendendo la metafora del pugile, l’Iran ha di certo incassato almeno due round di apertura terribili. Il primo a cura della sola Israele, il secondo con il contributo di un magistrale diretto portato dai bombardieri B2 Spirit americani. Inoltre non ha potuto nascondere le enormi falle nel suo apparato di sicurezza. Come spiegare infatti la possibilità per Israele di stabilire e sviluppare una rete complessa di agenti e fiancheggiatori all’interno del territorio iraniano in grado, su ordine, di colpire ovunque? Non c’è che dire, dal punto di vista tattico e dell’esecuzione tecnica Israele ha messo a segno un altro dei suoi colpi da manuale. Ma non ha inflitto a Teheran alcun colpo mortale, anzi.
E’ oggi evidente come Israele abbia, infatti, sottovalutato e di molto la capacità missilistica iraniana, sia in termini numerici, sia di qualità e soprattutto non abbia considerato che Teheran potesse scegliere di preservare gran parte della sua capacità strategica di colpire Israele nascondendo, occultando e mettendo al riparo gran parte del suo arsenale missilistico più moderno. Teheran non ha comunque rinunciato a rispondere all’attacco israeliano con un continuo lancio di missili e droni. In particolare nei primi giorni sono stati impiegati quelli più vetusti e vicini al confine iracheno, quelli cioè destinati ad essere neutralizzati rapidamente. Man mano che l’attacco proseguiva l’Iran ha modificato il suo approccio lanciando molti meno missili, ma più moderni e di gittata e precisione maggiori. Questi hanno colpito diversi obiettivi in tutto Israele, tra cui infrastrutture di rilevante importanza come, ad esempio, il porto di Haifa e le raffinerie nelle sue adiacenze o la sede del Mossad a Tel Aviv. Alla fine dei primi due round Teheran era dunque ancora in piedi dimostrando due fatti. Il primo che per quanto fosse forte la pressione sul suo territorio esso riusciva comunque a colpire quello di Israele e non a caso, ma selezionando obiettivi militarmente paganti e con un impiego limitato di risorse conservando in apparenza una buona parte della sua capacità missilistica. Il secondo è che Teheran sarebbe stato in grado di proseguire il conflitto per parecchio tempo e comunque molto al di là delle capacità operative e logistiche di Israele. La sfuriata inziale e, soprattutto, la campagna missilistica iraniana sui cieli dello stato ebraico hanno dimostrato che l’architettura di difesa aerea di Israele, per quanto sviluppata ed accurata, non rende certo il suo territorio invulnerabile da ogni attacco dal cielo. Inoltre ha obbligato le IDF ad un consumo di missili intercettori e di altri armamenti per la difesa che la logistica non riusciva a sostenere e a ripianare. L’intervento americano con il bombardamento dei siti nucleari con le rarissime ed esclusive bombe GBU-57 MOP ha fatto suonare il gong del secondo round proprio quando Israele stava andando in affanno per la carenza di munizionamento. Dopo lo sgancio di metà dell’intero arsenale americano di questi esclusivi ordigni dal perso di oltre 12 tonnellate, Donaldo ha unilateralmente decretato che l’oggetto del contendere – il programma nucleare– era stato annientato e che quindi anche Israele poteva dirsi soddisfatto. Con gli arsenali quasi vuoti e senza aver conseguito i due obiettivi strategici che si era proposto, Netanyahu ha richiamato cacciabombardieri e Mossad ringraziando a denti stretti Donaldo, che almeno questa volta, non si è fatto prendere per il naso.
Se però si vuole guardare un po’ più avanti si scopre che – ad oggi – non abbiamo prove della distruzione definitiva del programma nucleare, a parte ovviamente la parola di Donaldo. Anche i suoi apparati di sicurezza hanno iniziato a specificare che “forse”, “con buona probabilità”, “in apparenza” quel programma è stato compromesso, ma fino a che punto e per quanto tempo nessuno lo sa. Teheran dal canto suo ha tutto l’interesse a stare al gioco e a continuare i suoi programmi. Al riguardo sembrerebbe che all’appello manchino 450 chilogrammi di uranio già arricchito, finiti chissà in quale garage sui monti Zagros. E fosse solo questo.
La passata di Israele e il comportamento per lo meno leggero del direttore AIEA Raphael Grossi hanno fornito a Teheran un validissimo motivo per uscire dal trattato di non proliferazione nucleare e dalla AIEA stessa. Cosa farà da ora in poi l’Iran riguardo alla questione “bomba atomica” sarà sempre più difficile da scoprire visto che – giustamente – gli ispettori AIEA – dopo che si è dimostrato che molti dei loro rapporti, compresi quelli contenti nomi e cognomi degli scienziati iraniani addetti al programma, arrivavano nelle mani del Mossad – non saranno più ammessi in Iran. D’altra parte anche Israele fa lo stesso. Lo Stato ebraico, unica potenza nucleare della Regione, non solo non ha mai aderito ad alcun trattato né accettato alcuna ispezione, ma non ha mai ammesso di possedere armi nucleari. Peccato che il 22 settembre 1979 un satellite-vela americano, progettato per intercettare esplosioni nucleari (ovviamente da parte sovietica o cinese), ne rilevò una in atmosfera a sud delle…isole del principe Edoardo, due isolette sperdute vicino al polo Sud appartenenti al Sud Africa. A quel tempo Sud Africa e Israele collaboravano attivamente allo sviluppo dei rispettivi programmi nucleari e se due più due fa quattro…
Teheran, se lo volesse, potrebbe ora procedere più speditamente allo sviluppo di una bomba atomica non solo sperimentale, ma utilizzabile e lanciabile con uno dei suoi missili a lunga gittata. D’altra parte possedere la Bomba sembrerebbe essere l’unica fattiva assicurazione contro prossimi attacchi da parte israeliana. A corollario di questo ragionamento c’è poi da richiamare… Sansone. Ricordate Sansone, quello dei Filistei? Nella Bibbia, precisamente nel Libro dei Giudici si narra di Sansone che pur di non cadere in mano ai Filistei, suoi nemici mortali, decise di fra crollare la propria casa causando la morte dei Filistei certo, ma anche la propria. Quando si parla di ordigni atomici evocare gesta come quelle del buon Sansone fa correre un brivido lungo la schiena. Sembrerebbe infatti che sia quello il nome scelto per la direttiva che prevederebbe il lancio di ordigni nucleari qualora fosse messa a rischio l’esistenza stessa di Israele. Appunto muoia Sansone…e immaginare un Netanyahu preso piccolo a piacere con in mano un simile potere non fa dormire sogni tranquilli.
Oltre ad aver dato nuovo e più criptico impulso al programma nucleare iraniano, oltre a non aver sortito alcun capovolgimento politico interno e, al contrario, aver compattato gli iraniani di fronte al comune nemico, l’ideona di Netanyahu e dei suoi compagni di merende ha sortito altri due effetti non proprio piacevoli.
Il primo è di spingere l’Iran verso un legame sempre più stretto e cogente con Russia e Cina. Tra le vittime dei bombardamenti c’è infatti anche la linea politica “aperturista” del presidente Massoud Pezeshkian. Quando il giorno del tuo insediamento il Mossad uccide a casa tua il leader politico di Hamas Ismail Haniyeh e quando stai trattando con gli Stati uniti Israele bombarda te e la Guida suprema è ovvio che la tua linea riformista e di apertura verso l’America va a farsi benedire e chissà per quanto tempo.
La seconda vittima è la credibilità militare americana. Questa volta Donaldo c’entra poco. Quando si minacciano l’apocalisse, l’armageddon e le piaghe d’Egitto si deve poi rendere tali minacce credibili in base non solo alla volontà di porle in essere ma anche delle capacità militari complessive per attuarle. La prima forse Donaldo, in uno dei suoi frequenti dialoghi con Dio Onnipotente, ce la potrebbe anche avere, ma la seconda si basa su numeri impietosi. I bei tempi in cui gli americani sbarcavano in Kuwait e invadevano l’Iraq con mezzo milione di soldati sono assai improbabili se non tramontati. Lo stesso per i bei tempi dell’Afghanistan talebano. Certo, se sei il Libano, la Siria mezza disintegrata o Timor est qualche timore faresti bene ad averlo, ma se sei uno Stato un po’ più robusto l’idea di un intervento diretto e in massa degli americani te la puoi scordare. L’hanno capito bene gli ucraini di Zelensky e anche gli iraniani degli Ayatollah, come l’hanno capito i cinesi guardando a Taiwan o i russi verso la Georgia. Un conto è, infatti, organizzare un fantastico raid aereo con velivoli modernissimi e iper-performanti o mandare vagoni di armi ed equipaggiamenti e tutt’altra cosa è pensare ai “boots on the ground”.
Netanyahu e i suoi ministri ultras avranno valutato tutto questo? Forse si, forse no, ma poco importa. A loro basta partire per un’altra guerra perché, come diceva Alberto Sordi alias Pietro Chiocca “Finchè c’è guerra, c’è speranza”.
Interessante ,scioccante , surreale
Grazie Paolo. Articolo bellissimo. Finalmente una lettura critica ed obiettiva della politica di Israele. Finora avevo letto solo baggianate infarcite di sviolinate totale a Israele o di fanatica adesione alle ragioni dei suoi avversari. Difficile trovare espressioni di equilibrio al riguardo, ma ( guarda un po’!) tu sei riuscito a restare umano anche riguardo ai “cattivoni” palestinesi.
Surreale
Scioccante