2025 – ancora Tucidide

Tu sei buono e ti tirano le pietre. Sei cattivo e ti tirano le pietre. Qualunque cosa fai, dovunque te ne vai, sempre pietre in faccia prenderai”. Se avete riconosciuto i primi versi di questa canzone siete davvero vecchietti. La cantava, infatti, Antoine, un bizzarro cantautore còrso-malgascio nel 1967 e per tanti anni gli unici ricordi che ho avuto di quel ritornello sono stati di mia mamma che lo canticchiava in cucina, credo come tacito e canoro rimprovero a mio papà.

Non avrei immaginato però che “le pietre” avrebbe mantenuto fino ai giorni d’oggi la sua freschezza, divenendo anzi una sorta di inno alla scomparsa del diritto internazionale. Negli ultimi periodi sono stati in molti a cantarla e in diverse parti del mondo. Gli americani l’hanno intonata a Saddam Hussein accusato di avere nascosto armi chimiche in qualche cassetto del comò. Morto. Nel 2011 furono i francesi e gli inglesi ai quali buon ultimi si siamo accodati noi italiani a cantarla a Gheddafi. Morto anche lui. Oggi la sta cantando Putin a Zelensky che per fortuna non è ancora morto e in questi giorni è il momento per Israele. Netanyahu con l’intonato accompagnamento di Ben Gvir e Bezalel Smotrich, gente dalla mentalità aperta come Alcatraz, la sta cantando all’ottantaseienne Ayatollah Khamenei che pur essendo ancora vivo ha ottime ragioni per essere un tantino preoccupato visto che attorno a lui gli hanno impallinato fior di generali e scienziati oltre ad un paio di migliaia di cittadini che però, si sa, non contano niente. Almeno per noi.

C’è da dire che questo tiro al piccione lascia perplessi quelli che, come me, si erano illusi che davvero esistesse il diritto internazionale, anche annacquato, e che con esso fossero ancora vive le naturali derivazioni del diritto umanitario e dei conflitti armati e i vari trattati, dichiarazioni, risoluzioni e convenzioni, tutti serviti sul luccicante vassoio della stessa dichiarazione istitutiva delle Nazioni Unite. Ricordate no l’ONU? Quella cosa misteriosa conservata come un pesce rosso in un Palazzo di Vetro a New York; pensata e realizzata nella seconda parte del ‘900, dopo che nella prima parte l’umanità s’era esercitata in tutto il campionario di guerre possibili: mondiali, regionali, locali, coloniali, religiose e rivoluzionarie per un totale, IVA esclusa, di 150 milioni di morti.

Se dunque il diritto internazionale se non proprio morto sembra essere gravemente ferito, resta ancora qualche legge utile e valida a regolare i rapporti tra popoli e stati? Certo che sì! La stessa che ci indicava Tucidide nel V sec. a.C.. Già gli ambasciatori di Atene presso l’isoletta di Melo spiegavano a suoi sbigottiti abitanti che:”…gli dèi, infatti, secondo il concetto che ne abbiamo, e gli uomini, come chiaramente si vede, tendono sempre, per necessità di natura, a dominare ovunque prevalgano per forze. Questa legge non l’abbiamo istituita noi, non siamo nemmeno stati i primi ad applicarla; così, come l’abbiamo ricevuta e come la lasceremo ai tempi futuri e per sempre, ce ne serviamo, convinti che anche voi, come gli altri, se aveste la nostra potenza, fareste altrettanto”. Qualche secolo dopo il marchese Onofrio del Grillo, interpretato da un memorabile Alberto Sordi, sarebbe stato capace di maggiore sintesi ricordando a tutti che “me dispiace, ma io so’ io, e voi nun siente un cazzo”.

Chiarito questo e docilmente rientrati nell’ambito dello hobbessiano “homo, homini lupus” tutto appare più chiaro. Se la giustizia si eclissa rimangono, dunque, solo la forza e l’interesse ed è attraverso questa lente che possiamo dunque guardare a questi giorni di guerra tra Israele ed Iran.

I due si sono promessi odio eterno da ormai cinquant’anni, da quando cioè la rivoluzione islamica espulse lo Scià Rheza Palahvi e il suo crudele e corrotto regime filo-occidentale che tanto ci stava simpatico. Tuttavia, come dicono a Padova, sembrò “pèso el tacòn del buso”, cioé la Repubblica Islamica che ne seguì. Per motivi ancora incomprensibili ai Persiani – perché così loro si definiscono – andava però meglio essere governati da qualche barbuto ma casalingo ayatollah che da una qualsiasi scostumata multinazionale anglo-americana.

Repubblica islamica ha volutodire niente minigonna, niente apericena, niente diritti agli omosessuali e niente un sacco di altre cose, ma almeno si ha consentito loro di sentirsi padroni del proprio destino. Certo non tutti ne sono entusiasti e anche tra gli entusiasti non tutti sono entusiasti di tutto, ma nessun regime sopravvive quasi cinquant’anni solo e unicamente sulla paura. Ci vuole anche consenso.

Sulle ragioni del consenso, profonde oltre 27 secoli, qui non indagherò; resta il fatto che i Persiani, quelli che ancora leggono il “Libro dei Re” scritto più di mille anni fa, si sentono ancora abbastanza “repubblicani alla maniera islamica” da pretendere di governarsi da soli e perseguire i loro sogni di gloria e potenza.

È fuor di dubbio che in Occidente, compreso il mio evoluto Paese, la Repubblica islamica sia apprezzata come la sabbia nelle mutande e saremo felicissimi di vedere incendiare la barba degli ayatollah e passare in una notte dal Niqab a Dolce&Gabbana, ma qualcuno farebbe bene a chiedere se è lo stesso che vogliono i novanta milioni di Persiani che oggi Israele tenta di redimere a forza di bombe.

Le ragioni di tanto odio tra i due sono molte ma tutte riconducibili ad una sola. Entrambi non contemplano l’esistenza dell’altro nel proprio futuro. Non s’intende forse la mera esistenza fisica – anche se Teheran dichiara di perseguire la cancellazione dello Stato d’Israele – ma almeno di condannare l’altra parte all’irrilevanza per il prossimo secolo.

Dal canto suo l’Iran ha pensato a sé stesso come la potenza egemone in questo quadrante del Mondo. Dalla loro parte c’è l’essere un paese di circa 90 milioni di abitanti, con un tasso di alfabetizzazione tra gli uomini del 90,4%, mentre tra le donne è dell’87,1% che sale al 91% nelle città pur rimanendo pari al 77,8% nelle campagne. La Persia ha ben 236 università che sfornano fisici, matematici, informatici ed ingegneri di eccellente qualità ad un ritmo quattro volte superiore alle università americane. C’è poi il petrolio. La barbuta repubblica islamica galleggia infatti sul 12% delle riserve mondiali di petrolio e sul 18% del gas naturale. Mica male. Infine c’è la geografia che, forse, andrebbe messa per prima. La Persia, con i suoi 1,65 milioni di chilometri quadrati, è una cerniera tra le grandi pianure dell’impero ex-sovietico, le montagne dell’Afghanistan e del Pakistan e l’oceano indiano con la sua preziosa diramazione del golfo Persico e il suo ancor più prezioso stretto di Hormuz, un braccio di mare largo si e no 30 km da dove transita il 20% del petrolio mondiale. Fin qui i macro vantaggi che la natura e la storia hanno dato a questa parte del mondo ai quali, come naturale, corrispondono altrettanti svantaggi e forse ancor di più.

In primo luogo i Persiani non sono Arabi. Iran significa “Paese degli Ariani” come a dire che con gli arabi non si ha nulla in comune il che li rende diversi ed estranei dai popoli che abitano quasi tutti i paese circostanti ad eccezione della Turchia e di Israele. Sono poi musulmani, ma di un tipo diverso, quello sciita che da quelle parti non è proprio popolarissimo. Basterebbe già questo per rendere difficile realizzare il sogno di Teheran di divenire de facto la potenza di riferimento della Regione. Arabia Saudita in primis, ma anche i paesi del Golfo, per tacere della Turchia non ne sarebbero certo entusiasti. Inoltre, da quando gli Ayatollah hanno sbattuto le porte in faccia agli Stati Uniti e al loro sistema industrial-energetico si sono fatti un nemico non di poco conto.

La storia degli attriti tra i due è lunga. Gli USA c’hanno provato a fare di nuovo amicizia scatenando contro la Persia un allora simpaticissimo Saddam Hussein con il risultato di perdere la guerra ma non prima di aver causato 1,5 milioni di morti. Gli iraniani hanno poi pensato nel 1981 di occupare l’ambasciata americana a Teheran che già di per sé nel defunto mondo del diritto internazionale non era considerato un gran bel gesto. Peggio poi se l’allora presidenza americana avesse rimediato una figuraccia planetaria nel tentativo di liberare manu militari i propri connazionali.

A seguire, nel corso di quarant’anni, si è avuta l’approvazione di una biblioteca di sanzioni che ha reso difficile in Iran trovare anche un’aspirina, una valvola a farfalla per carburatori e persino una centrifuga per l’arricchimento dell’uranio. Insomma, Washington e Teheran non vanno proprio d’accordo da almeno nove presidenti su 46 che ne hanno avuti dal tempo di Washington. Neppure l’Unione sovietica, contando il fatto che per almeno cinque anni sono stati alleati contro Adolfo, è stata così tanto a lungo sulle palle agli americani. C’è di che riflettere per il futuro immediato.

Malgrado la congiuntura non troppo favorevole Teheran non ha tuttavia abbassato la cresta e neppure ha chiesto umilmente scusa la qual cosa agli occhi dell’Occidente è addirittura peggiore di aver dichiarato guerra. Al contrario visto che a ponente non trovavano amici, gli Ayatollah li ha cercati a levante, in Russia, ormai ex sovietica, in India e soprattutto in Cina offrendosi pronti ad essere percorsi dalla nuova via della seta di Xi Jimping. Visto che c’era Teheran, il 17 gennaio 2025, ha anche sottoscritto un trattato di stretta vicinanza e assistenza con la Russia di Putin che però non comprende alcun obbligo di assistenza militare in caso di aggressione . Al riguardo qualche indiscrezione ha fatto trapelare che Putin sarebbe stato più che disposto a firmare una clausola di questo tipo sullo stile Corea del Nord ma che sono stati proprio gli Ayatollah a declinare l’invito per non infastidire ulteriormente gli americani che, seguendo la loro ondivaga politica, sembravano ora un tantino ammorbiditi.

Piano piano ci si avvicina alla questione centrale, quella del programma nucleare che tanto piace a Netanyahu. Già perché per mantenere una qualche credibilità internazionale e nel contempo rinfrancare un po’ d’orgoglio nazionale Teheran da ormai trent’anni ha pensato bene di avviare un robusto programma nucleare. Siamo chiari, agli Ayatollah l’energia atomica serve come un frigorifero al polo nord, ma l’idea di dotarsi di tecnologie nucleari e potenzialmente, un giorno, della Bomba, quello sì che avrebbe cambiato il quadro strategico. Potenzialmente è in questo caso l’avverbio fondamentale.

Sono oltre trent’anni, infatti, che Teheran è… ad un passo dal dotarsi della bomba atomica. Viene da chiedersi che cosa mai sia successo loro se ancora non ci sono riusciti, visto che nel frattempo anche la Corea del Nord di Kim “Belli capelli” Jong-Un ce l’ha fatta per non parlare del Pakistan o dell’India. Due ipotesi : o in Iran hanno i peggiori tecnici ed ingegneri del pianeta che pretendono di costruire una bomba con le cassette della frutta, oppure a Teheran serve solo l’idea della bomba. A questo punto è bene riproporre un po’ la storia di questa chimera che è stata o forse fu la “bomba atomica degli Ayatollah”.  

Nel secondo dopoguerra, furono proprio gli Stati Uniti ad avviare il programma di collaborazione internazionale “Atoms for Peace”, che prevedeva la condivisione di tecnologie nucleari a scopo civile con paesi alleati tra i quali l’Iran dello Shah Reza Pahlavi,. Nel 1957, Iran e Stati Uniti firmarono quindi un accordo di cooperazione nucleare, e nel 1967 fu installato a Teheran un reattore di ricerca da 5 megawatt fornito proprio dagli Stati Uniti. Queste iniziative posero le fondamenta del programma nucleare iraniano ma, come è facile immaginare, dopo la rottura del fidanzamento tra Washington e Teheran, le cose cambiarono velocemente. Finiti gli americani la Repubblica islamica cercò altri amici. In particolare, fu la Russia a giocare un ruolo significativo nella costruzione della centrale nucleare di Bushehr, iniziata negli anni ’90 e completata nel 2011. Nel frattempo le autorità religiose, inclusi gli Ayatollah Khomeini e Khamenei, che da quelle parti contavano certo qualcosa emisero una fatwa cioè un ordine dalla forza di precetto religioso contro lo sviluppo di armi nucleari. E non basta. Gli stessi rapporti della CIA fino a ieri mattina indicavano che l’Iran ha le capacità tecniche per sviluppare armi nucleari, ma che non ha preso la decisione politica di farlo. Ad esempio, un rapporto del 2023 dell’Ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale degli Stati Uniti affermava che l’Iran non stava attivamente costruendo armi nucleari, sebbene il suo stock di uranio arricchito stesse crescendo. E sono solo due anni fa.

Tuttavia, l’opposizione iraniana in esilio, il Mossad e il governo israeliano hanno spesso denunciato l’esistenza di un programma nucleare militare segreto. Questo non è da escludere a priori vista anche la scoperta attorno agli anni 2000 di installazioni nucleari segrete nei pressi di Natanz e Arak. L’essere (forse) stato colto con le mani nel sacco convinse il governo di Teheran ad accettare l’avvio di trattative per la definizione della questione. Il risultato fu nel 2015 il cosiddetto accordo JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action), che prevedeva limitazioni del programma nucleare. Il clou dell’accordo era semplice: centrali si, bomba no. Gli Ayatollah accettarono in cambio della riduzione di alcune sanzioni.

Dell’accordo non rimanevano affatto convinti né l’opposizione iraniana in esilio (chi se ne frega), né, soprattutto Israele. Così nel 2018 il nuovo e tricologico presidente Donaldo decise di ritirarsi unilateralmente dall’accordo introducendo nuove sanzioni. Contentissimi gli Israeliani, meno contenti gli iraniani che pur avendo aderito a tutte le clausole del trattato si sentivano dire “non è abbastanza”. In un farsi educatissimo Teheran rispose se per caso Trump avesse gradito anche “una fettina di culo vicino all’osso” ma Donaldo rispose che quella era la sua strategia di “massima pressione” e tanto per far ben comprendere di che pressione si trattasse nel 2020 uccise con un drone il generale Qassem Soleimani. Cinque anni dopo, ma sempre con lo stesso barbiere, Donaldo sembra aver cambiato idea. Dopo la strage del 7 ottobre 2023 e la conseguente reazione israeliana il suo sogno di essere il padre dei cosiddetti “accordi di Abramo” sembrava ormai svanito. Al prode Presidente, paladino dell’America first, di Abramo e degli accordi poco importava. Quel che davvero invece dava fastidio era che Hamas con il seguito di Hezbollah ed Houthi avevano mandato a farsi benedire l’idea di sganciarsi o almeno allentare la presenza a stelle e strisce dal Medio Oriente, passando la mano ad Israele come potenza regionale tutrice degli equilibri dell’area.

Per i nemici arabi dell’Iran l’idea in sé poteva anche andar bene, ma non fino al punto di far finta di non vedere quello che Israele stava facendo in Libano, Siria e Yemen, avendo nel frattempo steso sulla Striscia di Gaza e sulla Cisgiordania un regale “non cale”. Prima di giovedì scorso con una delle sue famose piroette Trump aveva dunque di nuovo riaperto al dialogo con l’Iran nella speranza di rifar partire Abramo e il suo accordo e, finalmente, potersi sganciare da quel posto dove tutti litigano con tutti.

Mentre Israele e l’opposizione iraniana all’estero continuavano comunque a spingere contro un accordo tra Iran e Stati Uniti, Trump sembrava più incline a raggiungere un’intesa sostenuta anche dai buoni auspici delle monarchie del Golfo, in particolare dell’Arabia Saudita. Il 12 maggio 2025, ad un mese dall’inizio dell’attacco israeliano, Americani e iraniani concludevano positivamente a Muskat in Oman il quarto giro di consultazioni riproponendosi di vedersi da lì a un mese.

Con ogni probabilità in questi giorni gli ingegneri iraniani hanno trovato in fondo ad un cassetto l’ultima vitarella che serviva a costruire la bomba. Poveretti, la cercavano da vent’anni. Il ritrovamento della vite passo fine M 0,25 ha quindi convinto Netanyahu che prima che i perfidi iraniani trovassero anche il cacciavite era ormai tempo di attaccare e spianare l’Iran. Anche la AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) che per vent’anni e fino ad un mese fa non s’era accorta di nulla si è risvegliata d’improvviso gridando “Alla Bomba, alla bomba!”. E così per salvare il mondo libero da sicura distruzione sono decollati i jet di Tel Aviv.

C’è però una seconda interpretazione lievemente più complessa che vede Israele intento a perseguire una nuovo linea strategica, ritenuta definitiva. Dopo settant’anni di guerre concluse sempre con una vittoria che in realtà era un pareggio Tel Aviv crede che oggi ci siano le condizioni generali per chiudere la partita; definitivamente.

Se respingere e trattare non funziona proviamo allora con il cancellare. La sintesi è di certo brutale, ma rende bene l’idea. Ecco quindi che la questione palestinese si risolve…annichilendo i palestinesi stessi, almeno quelli che si ostinano a vivere a Gaza o nei Territori Occupati della Cisgiordania (definizione ONU). Il problema dei due stati si risolve prendendo tutto il terreno, dal mare al fiume. Il problema della competizione con l’Iran si risolve colpendo come prima cosa i tentacoli del mostro, vale a dire Hamas/Palestinesi, Hezbollah/sciiti libanesi, ribaltando il regime di Assad in Siria e spartendosela poi con la Turchia e infine gli Houthi che per fortuna loro sono troppo lontani per essere fagocitati. La prima parte del disegno strategico è ad oggi più o meno riuscita. Dico più o meno perché a Gaza, malgrado la carneficina terroristica che vi si sta perpetrando, Hamas c’è ancora, certo ridotta molto, molto male, ma c’è e credo ci sarà ancora per molto. In Libano Hezbollah ha preso una botta durissima ma non definitiva e sulla Cisgiordania per ora l’anschluss non è completo.

Si tratta di una quasi vittoria che però non garantisce ancora la sicura riuscita del piano di mettere al riparo Israele ora e per sempre. Ecco quindi che si attacca l’Iran non per il suo programma nucleare a cui neppure Israele crede, ma nell’intento di costringerlo a un radicale cambio di regime e di status, magari riducendolo a rango di stato fallito come l’Iraq o addirittura sparito come la Siria. Qui la partita è ancora aperta.

Accanto al piano generale ci sono infine le miserie umane che in questo caso hanno la loro importanza. Prima fra tutte quelle del primo ministro Netanyahu, ricercato all’estero per crimini di guerra e inquisito all’interno per corruzione e frode. Quest’uomo ha legato il suo destino non solo politico ma personale alla riuscita del piano strategico di rendere Israele un posto finalmente sicuro per gli ebrei, non importa a quale prezzo.

Questo è il patto che lega Netanyahu al suo popolo che per l’82% (fonte Haaretz) si è dichiarato favorevole al bombardamento continuo di Gaza e con percentuali anche superiori applaude alla campagna di distruzione dello stato persiano.

C’è poi la disorientata parabola del presidente Trump che appare sempre più inconsapevole di quanto gli accade intorno e ininfluente a modificare gli eventi. Parte della sua amministrazione non solo spinge per spianare Teheran ma prende decisioni in tal senso senza avvertirlo, il suo alleato Netanyahu si comporta non come alleato ma come il sergente che ordina alla recluta cosa deve e non deve fare e in tutto questo Donaldo guarda smarrito e ringhioso agli americani ai quali aveva promesso di terminare tutte le guerre e tornare ad essere grandi. Poverino. Poche volte una persona così piccola è stata messa a capo di una potenza così grande.

Agli occhi degli abitanti dell’isola di Melo e degli ambasciatori di Atene tutto questo era apparso chiarissimo e per nulla disdicevole. Il diritto, la ragione, la giustizia non c’entrano nulla. Qui si parla di pura forza. Israele ha più aerei, più tecnologia, più determinazione e, soprattutto, più amici dell’Iran quindi li usa per il suo esclusivo interesse. L’Iran – forse, ma non ne abbiamo la prova – avrebbe fatto lo stesso. All’opinione pubblica mondiale che guarda attonita e che non comprende cosa sia successo si raccomanda di dimenticare tutte quelle storie sul diritto e sui diritti, sulla comunità internazionale e sul diritto dei popoli ad autodeterminarsi. Roba che suona anni ’90 più della Fiat Croma. Sarebbe più intelligente a questo punto riconoscere forza e inganno come motore delle relazioni internazionali e quindi per noi, adesso, sarebbe più conveniente sostenere Putin rispetto all’Ucraina semplicemente perché appare più forte e sostenere Netanyahu rispetto a tutti i suoi nemici semplicemente perché ha più bombe e amici più forti disposti a fornirgliene ancora. Poi diremo che è giusto che la Cina si riprenda Taiwan o che gli Americani si prendano la Groenlandia. Andrà tutto bene finché questi lupi affamati non ci guarderanno negli occhi e l’ultima cosa che vedremo sarà l’avorio bianco dei loro canini.

3 pensieri riguardo “2025 – ancora Tucidide

  1. La legge del più forte mi preoccupa in special modo quando, attualmente, i più forti sono uomini che usano il potere esclusivamente nel loro interesse.
    Grazie per la bella lezione di storia ma per ricordarla devo rileggerla tante volte.
    A proposito di Iran, anni fa ci sono stata da “turista” e le donne mi hanno fatto tanta pena,le giovani ci venivano vicino e ci sussurravano help me, quelle adulte non ci guardavano per paura.

  2. Bene. Almeno finalmente parole di verità (a parte le metafore).
    Mi sento di aggiungere che la Shoah andrebbe ormai catalogata nella preistoria, e lì lasciata perché usarla per giustificare la malvagità è ignobile.
    Vorrei anche che i cittadini italiani di cultura e/o parentela ebraica avessero meno remore nel riconoscere la violenza dello Stato di Israele, parodia di quella che qui in Occidente si intendeva per democrazia

  3. Articolo molto interessante. Ho apprezzato soprattutto la ricostruzione storica. Qualche brivido me lo ha provocato. Confesso che questa situazione mi spaventa molto.
    Grazie, comunque.

I commenti sono chiusi.