Racconto di un primo maggio.
Quando la comprai era il 1983. Me l’aveva venduta un collega di corso per la mirabolante cifra di 32.000 lire. A quel tempo vivevo a Torino, corso Francia 276, all’ultimo piano di uno dei tanti bei palazzi che abbracciavano la vecchia chiesa della Visitazione. Ricordo che avevo provato a smontarla nel sotto scala lasciando laggiù telaio e motore ma portandomi in casa il serbatoio e i parafanghi. Il blu notte che qualcuno a Firenze, (già perché era targata Firenze) o chissà dove gli aveva dato proprio non mi piaceva. Meglio un bel arancione brillante, molto più Ducati. E così l’avevo verniciata sul tavolo della cucina. Idee che ti vengono in mente solo a 20 anni.

Solo quarant’anni dopo avrei scoperto che lei era uscita dalla fabbrica di Borgo Panigale di un irreprensibile giallo con bordature nere, ma come ho detto ci sarebbero voluti quasi quarant’anni per scoprirlo. Sotto una patina di vernice, un’uniforme, o la presunzione della giovinezza si nascondono spesso verità sorprendenti disposte a essere scoperte a patto di mantenersele vicine, a portata di sguardo così come avevo fatto per la vernice arancione, l’uniforme e, soprattutto la presunzione. Su quel sellino c’erano saliti i miei sogni di giovane uomo e quello che credevo fosse il mio unico Amore. La similpelle nera aveva il valore di una reliquia. Tanti anni fa ero riuscito a portarla da Torino ad Ancona malgradi un carburatore quasi completamente fuori fase e un cuscinetto con la metà delle sfere.

Benché ferita era stata la regina di un’indimenticabile estate di mare, sale e baci sulla pelle bruciata. Di sere trascorse a guardare imbambolato un paio di inconsapevoli occhi azzurri che giustamente preferivano ballare e che alla fine dell’estate avrebbero percorso altre strade.
Lei, con il suo malinconico faro nero dal vetro ingiallito, aveva visto tutto e sono certo se lo ricordava. Sarà stato per questo suo ruolo di testimone muto che non avevo mai pensato di venderla o di demolirla. L’avevo però seppellita nel garage dei Miei, insieme a vecchi anfibi, libri della scuola ufficiali e gavette ammaccate. Tutto s’era pian piano ricoperto della patina umida del tempo. Di quella muffetta mal odorosa e cotonata che ci ricorda il decomporsi d’ogni cosa, motociclette comprese.

Ogni volta che scendevo a trovare i Miei la guardavo, sempre più impolverata e arrugginita, e ogni volta le promettevo che l’avrei rimessa a posto. Sono un uomo di parola, lenta, ma comunque di parola così dopo oltre trent’anni di attesa, mi ero deciso a sistemarla.
La storia di chi, dove e come ci riuscì è di per sé un altro racconto. Qui mi basta ricordare che protagonisti sono stati un compagno di classe del liceo con il pallino per la meccanica vintage, un ex manutentore della Ariston, un paesino arrampicato sui contrafforti degli Appennini, un carrozziere diacono e Mariana, un’agguerritissima oca da guardia. Mescolando questi ingredienti e aggiungendo una buona quantità di tempo e di soldi, alla fine avevo ottenuto quel che volevo: mantenere una promessa.
Non di quelle promesse fatte agli uomini per le quali si può sperare nell’oblio o quelle sussurrate a una donna la quale già sa che, nel momento stesso in cui pronunci quel voto, sei già un inconsapevole spergiuro. No. Io la promessa l’avevo fatta all’unico cilindro da 436 cc erogante ben 27 cavalli dell’ingegner Taglioni, sommo sacerdote del monoalbero e della distribuzione desmodromica. Altro che scherzi.

Lo scorso primo maggio sono dunque andato a trovare i Miei. Come ogni volta mi sono sentito in colpa per non andare più spesso, anche se ho iniziato a prendere coscienza che la mia non è cattiva volontà o disinteresse, ma il dolore di vederli ogni volta sempre più vecchi e sempre più lontani da quella coppia che mi portava al mare comprandomi 20 lire di pizza al rosmarino o che mi aveva accompagnato al binario 3 della stazione di Falconara Marittima, un giorno di inizio settembre quando avevo deciso di partire per l’accademia di Modena.

Per sfuggire a tutto questo e allo specchio in cui a stento oggi riconosco il giovane sottotenente che per 32.000 lire l’aveva comprata, sono sceso in garage pronto a sfidare l’alza valvole e i suoi calci. Lei sembrava non aspettasse altro. Al quarto tentativo ed alla prima goccia di sudore s’è messa in moto. Ho trovato un casco così vecchio che credo fosse fatto in legno; anch’esso aveva quel sentore di muffetta mortifera, ma andava bene così. Senza bollo e senza assicurazione ho messo la prima e la frizione s’è staccata con un leggero miagolio. Via!

Ero consapevole e un tantino preoccupato perché stavo uscendo per un giro completamente illegale. D’altra parte una moto che ha il cambio a destra, cioè dalla parte opposta a quella delle spaziali moto attuali, che non ha freni a disco e neppure gli specchietti retrovisori, né le frecce poteva essere disponibile a portare a spasso solo chi fosse capace di assumersi una minimo di rischio, compreso quello di essere fermato dai Carabinieri di Monte San Vito. Chi se ne frega.
Mi sono così imbucato nella prima stradina che ho trovato. Una delle tante stradine di campagna che la mania ordinatrice del tempo attuale aveva deciso di asfaltare ma che, fedele alla sua origine di breccia polverosa, stava perdendo pezzi di asfalto come un serpente in muta. Anche la seconda stradina era in piena mutazione. Sarà stata larga si e no quattro metri e piena di buche. Mentre rimbalzavo sbagliando marcia mi rendevo conto di come quelle fossero le strade del suo tempo. Un tempo dove 27 cavalli erano più che sufficienti per spostarsi da qui a lì, ma indispensabili perché il profumo del fieno appena tagliato o delle ginestre in fiore ti entrasse nel casco a soffocare quello della mefitica muffetta.

Il monocilindrico dell’ingegner Taglioni saliva e scendeva sicuro e rombante per colline verdissime di grano. Da queste parti le colline sembrano onde sul bagnasciuga in una giornata di tramontana. Salgono ripide e si arricciano in cresta dove prendono la forma di un casolare di mattoni gialli o di un paesino, poi scendono rapide per risalire ancora e ancora fino all’ultima cresta, quella che ti apre la vista del mare.
Guidavo sulle strade delle mie parti rendendomi conto che solo là mi sentivo veramente a casa; solo là potevo sorridere senza un motivo e quasi sentire ancora le mani di quegli occhi azzurri che si stringevano a me, ormai un baratro di anni fa ma sul quale ancora galleggiava l’emozione di allora. Intatta.
Con questi pensieri quasi non mi sono accorto di essere arrivato alla Statale che qui non è un’Università ma l’unica lunga strada che attraversa la costa da sud a nord e che tutti chiamiamo “la Statale” con l’unica variante di “la Nazionale”.

L’ho attraversata segnalando ogni spostamento con un braccio fino ad arrivare al mare, anzi, come diciamo qui “giù ‘l mare”. Ho annusato l’aria che già sapeva di frittura di pesce e fiori di pitosforo, overture d’ogni estate che si rispetti. Ci sarebbe stata bene una sigaretta fumata in silenzio, ma ho smesso nel 2007. Peccato. Metto in moto e ritorno a casa.
Aveva ragione Ferretti, un poeta di queste parti che della sua terra cantava …io l’amo perché ci sono nato, e solo essa può ricordarmi l’albero e la casa, l’ultimo sogno e il primo amore”.
Buon giorno Generale con la storia della sua moto e come se avesse raccontato una vita certamente sua ma comune a molti ma sicuramente non a tutti!
Bellissimo racconto
Grazie